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02/10/2018: Non basta trovare i colpevoli degli incidenti, ma bisogna rimuovere le cause.

Da Confindustria si alza la voce del Direttore dell'Area Lavoro e Welfare, Pierangelo Albini

Ancora il parere di un esperto sul 2° Rapporto sulla Salute e la Sicurezza sul Lavoro presentato, a Roma, nella Sala del Parlamentino del CNEL, il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro. A parlare, questa volta, è il Direttore dell'Area Lavoro e Welfare di Confindustria, Pierangelo Albini. L'opera - lo ricordiamo - è stata realizzata dieci anni dopo l'entrata in vigore del decreto 81/2008 e analizza i principali interventi su questo tema del legislatore, della giurisprudenza, della prassi amministrativa e del mondo della ricerca. Il rapporto riporta inoltre l’andamento degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali di quest’ultimo anno. Ripercorriamo, punto dopo punto, i momenti salienti dell'intervento di Albini, intervistato a latere della presentazione. 

 

- Il Rapporto dell'ANMIL rappresenta una occasione per riflettere sulla normativa vigente. Va rivista?  È tutto "buono", è tutto "cattivo"?

Non c'è niente che sia tutto buono o tutto cattivo. Neanche il Testo Unico sulla Salute e la Sicurezza sul lavoro, che ha dieci anni. Siamo in un momento in cui molte cose stanno cambiando nel mondo del lavoro e quindi una riflessione va fatta. Il Rapporto dell'ANMIL ha consentito di discutere proprio su questo aspetto, su come cioè la legge tenda, in alcune parti, a privilegiare l'aspetto formale rispetto a quello sostanziale. Io penso che si debbano completare alcune punti e che altri vadano probabilmente ripensati.

 

- Lei sostiene che il confronto con le parti sociali va rivisto non solo sotto il profilo dell'individuazione delle responsabilità, ma anche dal punto di vista delle convergenze. Ci spieghi meglio

Sono due discorsi un po' diversi. Il primo è attinente alla legge che introduce un modello dialettico dentro i luoghi di lavoro con le RLST le RLS. E in proposito abbiamo visto che c'è molta difficoltà da parte del Sindacato a trovare persone che si facciano carico di questo ruolo. Difficoltà che, probabilmente, finisce per inficiare il modello dialettico stesso, che forse va ripensato. L'altro tema, quello dell'individuazione delle responsabilità, è una mia opinione sul fatto che questo Paese molto spesso, di fronte ad un incidente sul lavoro, cerca un colpevole e, una volta che l'ha trovato, ritene di avere risolto il problema. Invece l'analisi va fatta sulle cause, e non sugli effetti, per intervenire allo scopo di rimuovere i motivi che potrebbero determinare nuovamente infortuni dello stesso tipo. 

 

- La cultura della sicurezza insomma dovrebbe ripartire da questo principio? 

Non c'è dubbio. Diciamo inoltre che bisognerebbe imparare ad essere meno emotivi. Questo è un tema che suscita molto spesso l'emotività ed è comprensibile. Parliamo di persone, parliamo di vittime di infortuni, parliamo di situazioni che sono motivo di sofferenza. Però, quando si supera il momento dell'emotività, bisogna incominciare a ragionare sulle cause e quindi avere la capacità di dire che non è sufficiente il momento in cui cerco il colpevole e lo individuo per risolvere il problema. Rimane il fatto che quell'evento non deve più capitare e bisogna costruire le condizioni perché non succeda più. Ripeto: non è trovando il responsabile di un infortunio che abbiamo risolto il problema per il futuro. Lavorare sulla sicurezza è tutta un'altra cosa.

 

- Riporto ancora una sua riflessione, a proposito della rivoluzione scientifica e del cambiamento dei modelli di lavoro. Se cambiano gli attori in campo, a cominciare dai nuovi ruoli rivestiti dalle macchine, il discorso della sicurezza va affrontato su piani diversi?

Non c'è dubbio: il rapporto fra l'uomo e la macchina non è solo una rivoluzione tecnologica, ma è proprio una rivoluzione scientifica e culturale che mette la persona e la macchina in una relazione completamente diversa. Il controllo che l'informatica può fare sui movimenti di chi lavora è qualcosa che noi, oggi, troviamo assolutamente impropria. Mi riferisco, ad esempio, all'idea che una persona porti un braccialetto che gli segnali se compie un'operazione corretta o sbagliata. Ma se questa cosa servisse ad evitare un infortunio, tutti la considereremmo una grande opportunità. Ecco perché la tecnologia ci darà sicuramente un grande aiuto e dovremo anche abituarci a cambiare la visione che abbiamo del rapporto fra l'uomo e la macchina. Oggi è l'uomo che controlla la macchina e molto probabilmente andremo verso una stagione in cui l'uomo e la macchina si integreranno e non sempre sarà l'uomo a controllarla. 

 

- Come valuta l'aumento degli incidenti sul lavoro che si è riproposta nella prima parte di quest'anno? 

Ho visto un grafico curato dall'INAIL che fa vedere gli effetti che le diverse leggi, nel medio periodo, hanno avuto sull'andamento infortunistico in Italia. Da questo grafico si deduce che, tutte le volte che è stata introdotta una nuova norma, si è registrato un effetto positivo e il trend sugli infortuni è risultato in calo. Ci possono poi essere situazioni particolari, in anni in cui accade una tragedia con effetti che sono sotto gli occhi di tutti. Non vorrei però trarre, da questi episodi, la conclusione che stiamo andando in una direzione non corretta. Ritengo invece che la direzione sia giusta. Poi certamente, come si dice sempre, tutto quello che si fa non è mai abbastanza perché stiamo parlando di persone, di infortuni e di malattie professionali che rappresentano  un fenomeno nuovo. E a questo proposito va sottolineato che il loro trend è in crescita perché anche le scienze permettono di scoprire gli effetti negativi sull'organismo umano di sostanze che, in passato, erano considerate innocue o non se ne conosceva la tossicità. 

 

- Quale sarà l'apporto di Confindustria nell'ambito della salute e della sicurezza sul lavoro? 

L'apporto di Confindustria sarà duplice. Innanzitutto ricordo che abbiamo sostenuto le misure di politica industriale che sono state fatte dal precedente Governo perché investire sulle nuove tecnologie e sul cambio dei macchinari è fondamentale per contrastare la prima fonte di rischio legata alla loro inadeguatezza. La seconda cosa è che stiamo ragionando con il Sindacato per trovare una logica di gestione dei temi della sicurezza sui luoghi di lavoro più partecipata, più cooperativa, che sfugga al dualismo per cui c'è chi siede da una parte del tavolo e chi da qualche altra parte. Penso che la sicurezza non sia né di destra, né di sinistra, ma sia un problema di tutti. 

 

- Sul piano della sicurezza quale ritiene possa essere il ruolo dell'INAIL?

L'INAIL non può essere un Istituto che vanta un margine di bilancio di un miliardo e mezzo di euro all'anno, senza poi di fatto assumere una funzione di player, di giocatore, sui temi della sicurezza. Perché nemmeno le assicurazioni private hanno margini così importanti e un ente pubblico non può avere una gestione di questo tipo, dal momento che le tariffe - che andrebbero riviste per legge ogni tre anni - in realtà non sono più state modificate da dieci. Aggiungo che non esiste neppure un buon principio di assicurazione perché l'assicuratore va a vedere se, in una fabbrica, sono state apportate innovazioni o se il lavoro viene fatto come dieci anni prima. Alla luce della velocità dei cambiamenti in corso, l'INAIL deve fare rapidamente questo lavoro di aggiornamento delle tariffe e quindi dei premi, facendo pagare ciò che è giusto alle imprese. Del fatto poi che disponga di ampi margini finanziari e che, grazie a questo, voglia fare ricerca, prevenzione, aumentare le rendite (anche al di là di quelli che possono essere i tassi di inflazione), io non posso che esserne contento. Insomma l'INAIL non può essere unicamente una tesoreria dello Stato.  

 

- Che cosa pensa dell'alternanza scuola-lavoro? È importante per le imprese? 

È importante per le imprese nella misura in cui è fatta intelligentemente. Io cito un numero: prima dell'obbligatorietà, nelle aziende andavano 270.000 studenti a fare l'alternanza e, dopo l'obbligatorietà, 300.000. Il che vuol dire che la sensibilità verso il mondo dell'impresa non è cresciuta. Probabilmente gli istituti tecnici, che già cercavano questa forma di alternanza scuola-lavoro, hanno continuato a farla come un momento importante del percorso didattico-educativo. Ma, sia chiaro, non stiamo parlando di lavoro. Se un giovane studia una materia e la vede applicata, ha modo di capire che cosa accadrà nel mondo del lavoro e si può fare già un'idea concreta. Ma il primo a credere in questo processo deve essere il professore perché, per lui, può diventare anche un'occasione di verifica della sua preparazione. Ritengo quindi che, paradossalmente, l'alternanza serva quasi più alla scuola che allo studente. Adesso si discute molto di questa esperienza e le scuole, come spesso succede in Italia, si sono trovate a dover reperire gli spazi per far fronte all'alternanza e hanno mandato gli studenti ovunque fosse possibile. 

 

Luce Tommasi

 

Fonte: ANMIL

 


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