Dopo i cinque morti nel cantiere di Firenze o la strage di Brandizzo (ma l’elenco ahimè è lunghissimo), rimane viva più che mai l’attenzione su un tema, la sicurezza sui luoghi di lavoro, su cui non si riescono a spegnere i riflettori e che ci obbliga ad un momento di riflessione. Qual è la situazione nel nostro Paese e cosa serve per intervenire davvero? Lo abbiamo chiesto a Zoello Forni, presidente nazionale di ANMIL-Associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro.
Presidente, perché ancora nel 2024 si parla con tanta frequenza di morti sul lavoro? Cos’è che non va?
«In un Paese in cui il lavoro, per dettato Costituzionale, è principio fondante e diritto di tutti i cittadini, ancora oggi in media tre persone perdono la vita proprio lavorando. Dal 2008, anno di entrata in vigore del Testo Unico su salute e sicurezza dei lavoratori, il bilancio infortunistico non ha fatto registrare miglioramenti apprezzabili: i dati su infortuni e malattie professionali si mantengono pressoché costanti e ben lontani dall’abbattimento auspicato all’indomani del varo della nuova normativa. Nonostante l’attenzione politica e mediatica, lo studio, i progressi normativi e scientifici, c’è ancora una vasta zona d’ombra dentro la quale continuano a prevalere disinformazione, noncuranza e violazione delle regole che il nostro ordinamento ha fissato a tutela dei lavoratori: un terreno troppo insidioso, nel quale gli incidenti sul lavoro rimangono una costante inaccettabile nella cronaca quotidiana. La società si evolve, il lavoro cambia ed emergono rischi sempre nuovi con i quali spesso non siamo al passo per arginarli e che si sommano a quelli che ci portiamo dietro da generazioni: così nel 2023 si può morire facendo consegne a bordo di una bicicletta per conto di un datore di lavoro “digitale”, ma si può ancora rimanere vittima del ribaltamento di un trattore o cadere da un’impalcatura esattamente come cinquant’anni fa».
Quali sono i dati in vostro possesso relativi al 2023 ed inizio 2024? Si può parlare di una vera e propria emergenza?
«Nel mese di gennaio 2024 sono stati denunciati all’INAIL circa 42.000 infortuni sul lavoro che segnano un incremento del 6,8% rispetto al mese di gennaio 2023; i morti denunciati sono stati 45 in leggera crescita rispetto all’analogo mese dell’anno precedente, quando ne erano stati registrati 43. In forte aumento le malattie professionali: circa 6.200 per un incremento del 30,7%. I dati infortunistici relativi al mese di gennaio 2024 si pongono in evidente controtendenza rispetto all’intero anno precedente. Nel 2023, infatti, ci fu un calo di infortuni del 16,1% rispetto all’anno precedente; al 31 dicembre 2023 le denunce rilevate erano circa 585.000 rispetto alle quasi 700.000 dell’anno 2022. Sempre nel 2023 si era registrata una flessione anche per gli infortuni mortali, scesi da 1.090 del 2022 a 1.041 del 2023 (-4,5%). Significa, dunque, che dopo un 2023 molto positivo, all’inizio di questo anno si sta profilando una preoccupante inversione di tendenza? Stiamo entrando forse all’interno di una emergenza sociale? A nostro parere è ancora prematuro fare affermazioni del genere. Innanzitutto va detto che non si possono considerare molto probanti e significativi i dati relativi ad un singolo mese. Inoltre, se allarghiamo il campo di osservazione agli anni precedenti, notiamo che gli infortuni del mese di gennaio 2024 risultano in forte calo rispetto al mese di gennaio 2022 (-26,8%) e perfino rispetto al mese di gennaio 2019 (-12,1%). Anche gli infortuni mortali di gennaio 2024, che sono cresciuti di 2 unità rispetto a gennaio 2023, segnano un calo di 1 caso rispetto allo stesso mese del 2022 e sono in linea con gennaio 2019, mese immune dalla pandemia. Per quanto riguarda, infine, le malattie professionali la crescita di denunce del 30,7% rispetto a gennaio 2023 non ha fatto altro che proseguire la crescita vorticosa già registrata sul mese di gennaio 2022 (addirittura +88,7%) e +26,7% su gennaio 2019, anno precedente la pandemia. Quella delle malattie professionali è una crescita ininterrotta che prosegue a ritmi molto sostenuti sin dal 2008. In conclusione potremmo sicuramente affermare che la situazione è da ritenere di per sé grave, perché circa 1.800 infortuni e 3,5 morti al giorno (compresi ferie e festivi) rappresentano una vera vergogna per un Paese civile; per non parlare dei circa 2.000 tumori che ogni anno vengono denunciati all’INAIL».
Quali sono i settori più a rischio e perché?
«Storicamente nel nostro Paese i settori di attività economica che presentano i maggiori livelli di rischio infortunistico sono quelli dove è preponderante o esclusiva la lavorazione di tipo manuale e/o che richiede il diretto e costante contatto con macchinari, mezzi o vari strumenti di lavoro. In particolare parliamo di Costruzioni, Trasporti e Agricoltura. In valori assoluti questi soli tre settori assommano quasi la metà dei morti che avvengono in ambito lavorativo: considerando la media annua dell’ultimo quinquennio (escluso il biennio della pandemia) le Costruzioni fanno registrare 131 infortuni mortali (17% del totale), i Trasporti 118 morti (15% del totale), l’Agricoltura circa 100 morti (13% del totale). Ma anche in termini relativi questi settori si trovano ai primi posti nella graduatoria degli Indici di frequenza infortunistica, che vengono calcolati periodicamente dai tecnici INAIL. Per ciò che riguarda le Costruzioni la frammentazione delle imprese, per lo più di piccole o piccolissime dimensioni (sulle 720.000 aziende assicurate all’Inail ben 655.000, oltre il 90%, hanno meno di 10 addetti) sparse su tutto il territorio nazionale le rende di difficile controllo da parte degli Ispettori del Lavoro. Sicuramente la scarsa attenzione alla sicurezza, il poco rispetto delle normative, il mancato utilizzo dei dispositivi di prevenzione e forte presenza di lavoratori irregolari o addirittura in “nero” caratterizzano questo settore dove circa il 50% dei morti sul lavoro avvengono per “caduta dall’alto”. I Trasporti rappresentano anch’essi un settore ad alta pericolosità legata al più generico “rischio stradale”, soprattutto per quanto riguarda gli autotrasportatori. Il lavoro agricolo è reso particolarmente pericoloso per l’utilizzo di macchinari il più delle volte obsoleti e mancanti dei dispositivi di protezione tecnologicamente avanzati. Se a questo si aggiunge poi che il nostro Paese è prevalentemente collinare si comprende perché il 60% circa dei morti in agricoltura è causato dal ribaltamento del trattore».
Fonte: ANMIL