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Il rapporto tra lavoro sommerso e sicurezza dei lavoratori
Negli ultimi 10 anni la soglia di attenzione ai risvolti economici e sociali del circuito delle illegalità è cresciuta notevolmente. La tesi che comincia a trovare consenso è quella secondo cui marginalità, diffusione del lavoro sommerso, criminalità e altre forme di irregolarità del tessuto imprenditoriale rappresentano oggi uno dei principali ostacoli alla crescita economico-sociale di un territorio. La persistenza di tali fenomeni disegna un arco di criticità che impedisce ogni possibilità sia di implementazione che di investimento di capitali.
Il progetto “INREGOLA” ha usato la ricerca economico-sociale come strumento non solo in grado di fotografare lo status quo, ma di fornire un’interpretazione delle interrelazioni tra legalità, emersione e sicurezza sul lavoro.
L’attività di ricerca muove dal presupposto che una nuova ottica di crescita economica vada via via consolidandosi e che con essa il fuoco dell’ attenzione si sposti proprio sulle opportunità che il ripristino delle legalità può offrire allo sviluppo sia economico che sociale. Il ripristino delle legalità diventa, quindi, un fattore attrattivo di primo piano sia per la vita del singolo cittadino-lavoratore, sia per tutti i soggetti che intendono investire nelle aree a maggior permeabilità. Infatti, tassi di delittuosità elevati, criminalità organizzata, corruzione e sacche di marginalità sociale e di lavoro sommerso, rappresentano ostacoli determinanti allo sviluppo economico ed esercitano un effetto di dissuasione sugli investitori potenziali.
Si rende necessario, perciò, non trattare separatamente i temi della legalità, dell’emersione e della sicurezza sul lavoro e definire un unico e coerente processo strategico di rafforzamento delle legalità e di modernizzazione del sistema socio-economico, tanto più in una condizione in cui la globalizzazione evidenzia sempre più l’insostenibilità di gestioni e prassi economiche in ritardo su un rinnovamento strategico che impone forti investimenti di innovazione ed internazionalizzazione.
1. I costi sociali ed economici della illegalità in Italia
I primi investimenti sulla sicurezza e la legalità, in funzione di una prospettiva di sviluppo, hanno trovato una prima traduzione a metà degli anni novanta quando nell’ambito della programmazione dei Fondi strutturali 1994-1999 si inserisce la sicurezza nella programmazione della “politica di coesione economico – sociale” dell’Unione Europea, riconoscendo l’effetto depressivo della criminalità sugli investimenti e, quindi, la condizione di grave svantaggio socio-economico di alcuni territori.
Concretamente i vantaggi dell’impresa mafiosa sono:
- disponibilità di risorse finanziarie: l'impresa mafiosa ha capacità di autofinanziarsi al di fuori delle linee di credito ordinarie, attingendo agli ingenti profitti derivanti da attività criminose;
- scoraggiamento della concorrenza: l'impresa mafiosa attua una concorrenza illecita con l’uso di tecniche intimidatorie per conquistare quote di mercato, per assicurarsi materie prime a prezzo di favore, nonché commesse, appalti e sbocchi di vendita;
- la corruzione di amministratori e pubblici funzionari: l'impresa mafiosa nel settore degli appalti pubblici, imponendo un cartello, annulla altre offerte competitive e condiziona le procedure di gara;
- la compressione salariale: l'impresa mafiosa gode di impunità sui controlli sulle erogazioni dei contributi previdenziali ed assicurativi ed esercita una compressione dei diritti dei lavoratori,
favorita dall'assenza dei diritti sindacali.
E i costi:
- Economia sommersa: 250 miliardi di euro
- Evasione fiscale: 100 miliardi di euro
- Corruzione: 60 miliardi di euro
- Economia illegale:169,4 miliardi di euro
In totale sono 160mila le vittime delle estorsioni con un costo stimato di 9 miliardi di euro e circa 180 mila quelle dell’usura con un costo stimato di 15 miliardi di euro.
2. Il sommerso
Le ultime stime di fonte Istat e Agenzia delle Entrate forniscono un quadro del fenomeno del sommerso in Italia che per dimensioni, progressione nel corso degli anni e differenziali con il resto d’Europa, è diventato un tema prioritario.
Analizzando i dati delle due fonti si scopre infatti che l’Italia è un paese dove l’economia sommersa ha raggiunto una dimensione che si attesta tra il 17% e il 19% del PIL.
Questo livello percentuale, almeno doppio rispetto ai paesi europei più avanzati, significa che in Italia la ricchezza sottratta al sistema fiscale e contributivo oscilla tra i 240 e i 270 miliardi di
euro che secondo stime del ministero dell’economia corrisponde ad una perdita di gettito superiore ai €100 miliardi l’anno, ossia, più del 15% del totale delle entrate fiscali oggi raccolte.
La gravita della situazione diventa ancora più visibile se il fenomeno dell’evasione viene studiato nel suo andamento storico. Come si legge in una relazione dell’agenzia delle entrate, in soli cinque anni la ricchezza prodotta nascosta al fisco è aumentata di circa il 30% e l’evasione cumulata nello stesso periodo ha superato 400 miliardi di euro, cifra che coincide con il volume di risorse impegnate in un quinquennio nel servizio sanitario nazionale e che supera del 25% l’impegno pubblico nell’Istruzione.
Ma quanti sono i lavoratori coinvolti nell’ambito dell’economia sommersa?
Secondo dati Istat nel 2005 l’economia sommersa riguarda 5.544 mila attività lavorative svolte in modo irregolare, pari a 2.951 mila occupati a tempo pieno.
Questi numeri, ci consegnano un mercato del lavoro nazionale in cui l’irregolarità coinvolge oggi oltre il 12% del totale degli occupati, disfunzione che sta assumendo un carattere strutturale.
Una comparazione con gli altri paesi europei
Secondo il rapporto Undeclared work in an enlarged Union, commissionato dalla Direzione Generale per l’occupazione e gli affari sociali della Commissione Europea, si evidenzia una situazione in cui, rispetto alla diffusione del lavoro irregolare, è possibile identificare due blocchi visibilmente distanti: il primo, quello dei quindici paesi di prima adesione, che esprimono una struttura socio economica più solida, dove la quota di occupati irregolari sul PIL si attesta ampiamente sotto la media del 6%; il secondo, quello dei paesi di nuova adesione, che esprimono una maggior fragilità del sistema sociale e produttivo, dove il fenomeno del lavoro irregolare si attesta normalmente oltre il 17% del PIL.
Rispetto a questa configurazione, i paesi che si muovono in modo divergente sono quattro: da
una parte l’Italia (17%) e la Grecia (20%), dove le dimensioni del fenomeno superano ampiamente la soglia (6%) dei paesi UE15; dall’altra l’Estonia e la Repubblica Ceca, che presentano un livello di diffusione più basso rispetto a quello dei dieci paesi di nuova adesione.
Chi sono i lavoratori del sommerso? Alcuni dati
Da una prima analisi dei dati ISTAT per tipologia di occupazione si scopre che nel 2005 il fenomeno si componeva per il 55% da residente, 35% posizioni plurime e 9% stranieri.
A questa struttura si giunge dopo un quinquennio in cui si sono registrati comportamenti diversi tra le tre componenti: il volume di residenti irregolari è rimasto sostanzialmente invariato nel periodo 2001-2005, mentre nello stesso periodo le posizioni plurime sono aumentate del 12% e gli stranieri hanno fatto registrare una rilevante diminuzione tra 2001 e 1003, passando da 721 mila unità a 114 mila unità, per poi tornare a crescere nel biennio successivo fino a 275mila unità.
I risultati di questa composizione per categoria non comprendo colf e badanti extra comunitari che sono in fase di regolarizzazione e che alcune stime quantificano in almeno 500.000 persone.
In quali settori il sommerso incide di più? Ed in quali aree geografiche?
Nel corso degli anni il sommerso sta diventando sempre di più un fenomeno che prende forma
dentro l’area dei servizi. Gli ultimi dati disponibili indicano come l’intero aggregato del manifatturiero rappresenta solo il 6,5% del totale degli irregolari, a cui va aggiunta la quota nelle costruzioni (7,3%), dell’agricoltura (9,8%) e dei servizi che assorbono il restante 76%.
L’analisi settoriale indica una marginalità del tema della globalizzazione e della concorrenza dei paesi in via di sviluppo quale possibile spiegazione del persistere nell’economia nazionale di una larga presenza di lavoro irregolare, obbligando invece a centrare l’attenzione su un problema più generale di cultura della legalità, efficacia dell’intervento repressivo e caratteristiche di un assetto produttivo che soffre ancora di una larga presenza di imprese marginali per dimensioni, organizzazione, dotazione di capitale, competenze professionali e scelte di business.
I settori al cui interno è più diffusa la presenza di lavoro irregolare sono infatti quelli dell’agricoltura (con un tasso di irregolarità pari al 22,2%), dei servizi (14%) e delle costruzioni (11,3%), mentre il fenomeno si attesta su livelli marginali nell’ambito del manifatturiero (3,9%).
Il dato disaggregato per comparto mostra che il 50% dei quasi 3 milioni di irregolari proviene: dalle attività del turismo, dove si concentrano più di mezzo milione di irregolari che corrispondono al 36% del totale occupazione dello stesso comparto; dai trasporti, dove il tasso di irregolarità sfiora il 30% e riguarda 470mila persone; ed infine, dai servizi domestici, dove nonostante provvedimenti di semplificazione amministrativa e di riduzione dei costi contributivi, l’irregolarità riguarda ancora 455 mila persone che corrispondono al 50% dei lavoratori impegnati su queste attività.
Anche l’esercizio di analisi geografica restituisce un profilo di forte divergenza tra regioni. E su questo fronte, l’analisi quantitativa attribuisce al Sud la principale responsabilità del lavoro irregolare in Italia. Le cifre per macroarea attribuiscono infatti il 45% delle Ula irregolari al Sud contro una quota del 18% al Centro e del 37% al Nord.
Spostandosi dai dati di composizione ai tassi di irregolarità, la quota di occupati irregolari sul totale dei lavoratori nel Mezzogiorno raggiunge quasi il 20%, contro un livello dell’11% del Centro Italia e di poco inferiore al 9% per il Nord.
La Calabria guida il gruppo delle regioni con i livelli di irregolarità più alti con una diffusione del fenomeno che ha raggiunto il 27% con numeri sull’occupazione irregolare che continuano a crescere (+7% nel periodo 2001-2005). Speculare alla Calabria c’è la situazione della Lombardia ed Emilia Romagna dove l’irregolarità si ferma sotto l’8% e dal 2001 gli occupati irregolari sono scesi del 14%. All’interno di questa forbice, l’unica regione del Mezzogiorno che si attesta su livelli allineati alla media nazionale è l’Abruzzo con un dato di irregolarità intorno al 12%. Per quanto riguarda invece le altre regioni del Sud l’irregolarità oscilla dal 16% della puglia fino ad attestarsi intorno al 20% per Sicilia, Basilicata, Campania e Sardegna.
3. La sicurezza e la salute dei lavoratori
L’Italia ha un tasso infortunistico leggermente inferiore alla media europea anche se il tasso di infortuni mortali è superiore.
Il numero di infortuni sul lavoro denunciati nel nostro Paese segue un trend costante di decrescita a partire dal 1971 arrivando a registrare, nel 2007, 874.940 infortuni, di cui 1.120 mortali.
L’analisi di lungo periodo testimonia del miglioramento generalizzato delle condizioni di lavoro in Italia, ma anche del perpetuarsi e dell’accentuarsi di alcune disuguaglianze nella tutela della salute sul lavoro dovute alla diseguale ripartizione dei diritti, delle tutele e delle opportunità tra i lavoratori, che penalizzano:
- I precari
- I lavoratori delle piccole aziende
- I giovani
- Le donne
- I migranti
I settori a rischio più elevato
Il rischio infortunistico più elevato è quello dei settori dell’Agricoltura (in Italia, 59,5 infortuni ogni 1000 addetti nel 2008) e dell’Industria (52,8), mentre è inferiore per quelli dei Servizi (29,2).
Ma mentre l’Agricoltura è il settore nel quale la diminuzione di infortuni è più marcata (negli ultimi tre anni, dal 2006 al 2008, si registra -15,5% di infortuni a fronte di una diminuzione occupazionale del 7,1%), seguita dall’Industria (-11,2% di infortuni e un aumento dello 0,4% di occupati), i Servizi vedono aumentare il numero di infortuni (+0,6% a fronte di un aumento occupazionale del 3,1%).
Anche la dimensione aziendale influisce nel determinare il livello di rischio, con maggiore tasso d’infortuni nelle aziende piccole e in quelle di tipo artigianale.
Le categorie di lavoratori più a rischio, alcuni dati
I tassi infortunistici per i giovani sono più elevati rispetto a quelli dei lavoratori più anziani: nel 2007 hanno subito un infortunio 45,1 lavoratori su 1000 al di sotto dei 34 anni, contro i 33,6 ogni mille di chi ha tra i 35 e i 64 anni e i 25,6 ogni 1000 al di sopra dei 65 anni.
La precarietà contrattuale si correla a una salute precaria: nel triennio 2005-2007 sono aumentati gli infortuni ai danni dei lavoratori atipici (+22,6% gli infortuni ai danni di parasubordinati; e +35,8% quelli ai danni di interinali) e degli apprendisti (+0,7%).
I lavoratori stranieri rischiano di più sul lavoro: abbiamo circa 60 infortuni ogni 1000 lavoratori stranieri contro i 40 circa dei lavoratori nel complesso.
L’analisi dei dati sugli infortuni consente di tracciare una mappa dell’esclusione che caratterizza
la società italiana, mostrando che i soggetti con le peggiori condizioni di salute e di sicurezza sono quelli più marginali e isolati. Le donne, i giovani e i migranti hanno alti indici di disoccupazione e tendono a essere assunti in mansioni o con modalità meno sicure degli altri lavoratori; i lavoratori con contratti temporanei così come, ovviamente, i lavoratori irregolari occupano posizioni più esterne e marginali; le aziende di piccole dimensioni solitamente occupano posizioni marginali sia nella filiera produttiva, per cui operano in una posizione di subalternità rispetto l’azienda madre, che nel mercato nazionale e globale.
Dunque, in Italia si sta affermando una forte frammentazione del mercato del lavoro e delle filiere produttive, cui corrisponde una frammentazione dei diritti e delle tutele per la salute e la sicurezza.
La salute non si tutela solamente garantendo la formazione, né agendo semplicemente sugli atteggiamenti e i comportamenti del singolo individuo, ma con un’azione più ampia di sistema, poiché è la posizione stessa del lavoratore o dell’azienda nel sistema di tutele che determina il suo livello di rischio.
Il sito “Inregola”.
Sintesi per la stampa del Report di ricerca nazionale 18/09/09
a cura di Elisa Mariano, Clemente Tartaglione, Daniele Di Nunzio, Elio Montananari
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