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L’articolo 2087 del Codice Civile nell'interpretazione della Corte di Cassazione (1/2)
1. Obbligo di sicurezza in se del luogo di lavoro
Ai sensi dell'art. 2087 del Codice civile (principio della massima sicurezza tecnica, organizzativa e procedurale concretamente fattibile) deve affermarsi, secondo la Corte di Cassazione, che «in linea di principio le norme di prevenzione degli infortuni trovano applicazione anche a beneficio degli estranei che si trovino nei luoghi di lavoro, poiché la loro integrità fisica è meritevole di tutela non meno di quella dei lavoratori» [Cassazione penale (sez. IV, 26 aprile 1998, n. 5020 Mustone): fattispecie relativa ad un cantiere edile posto all'interno di un'abitazione civile, nel quale un estraneo si introduce senza giustificato motivo e nello scendere lungo una scalinata in costruzione e priva di parapetti, passamano, tavole fermapiede e non sbarrata, scivola, batte la testa contro lo spigolo di un gradino e muore] [Cassazione penale Sentenza n. 6187 del 19 novembre 1999].
Con sentenza del 18 ottobre 2001 n. 1673 la Cassazione (sez. IV penale) ha ribadito che "i datori di lavoro, dirigenti o preposti sono tenuti ad attuare tutte le misure di sicurezza previste dalla normativa antinfortunistica indipendentemente dall'individuazione di coloro nei cui confronti si rivolge la tutela approntata dal legislatore: nel caso si verifichi un infortunio per inosservanza degli obblighi di sicurezza imposti, detta inosservanza graverà su chi detti obblighi avrebbe dovuto far rispettare, a prescindere dal fatto che ad infortunarsi sia stato un lavoratore subordinato o, addirittura, un estraneo all'ambito imprenditoriale, purchè sia ravvisabile il nesso causale con l'accertata violazione.
L'interpretazione prevalente dell'obbligo
Queste sentenze riconfermano “un principio di tutela generale per cui spetta al datore di lavoro attuare la “sicurezza in sé” dell'ambiente di lavoro, e, quindi, proteggere la sicurezza di qualunque persona - anche estranea - venga a trovarsi in tale ambiente di lavoro” (Guariniello, v. anche Cass. 14 ottobre 1992, Oppici e altro; Cass. 14 settembre 1991, Di Fazio, ivi, 1991, nonché Smuraglia).
L'interpretazione minoritaria
Secondo un differente indirizzo interpretativo, non ogni estraneo è tutelato, bensì soltanto colui che sia autorizzato ad entrare nel luogo di lavoro o che comunque vi acceda per ragioni connesse all'attività lavorativa.
Si vedano, in tal senso Cass. penale 10 ottobre 1985, sez. IV, Zonca e altro [Le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro non sono poste a tutela di ogni persona che si trovi comunque sul luogo di lavoro, magari per curiosità o abusivamente, ma solo a tutela dei lavoratori e di coloro che si trovino in una situazione analoga a quella di questi ultimi e cioè che siano entrati in fabbrica o in cantiere per un qualsiasi motivo connesso con il lavoro (ispettore, committente, fornitore, visitatore autorizzato). (Nella fattispecie è stato ritenuto sussistente il delitto di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ai danni di operaio dipendente di altro cantiere che per consuetudine, non contrastata, era solito trattenersi nel cantiere vicino ove ebbe a verificarsi l'evento mortale)] e Cass. 26 febbraio 1992, sez. IV, Pampirio, [In tema di violazione di normativa antinfortunistica in un cantiere edile, per "ambiente di lavoro" deve intendersi tutto il luogo o lo spazio in cui l'attività lavorativa si sviluppa ed in cui, indipendentemente dall'attualità dell'attività, coloro che siano autorizzati ad accedere nel cantiere e coloro che vi accedano per ragioni connesse all'attività lavorativa, possono recarsi o sostare anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro. (Nella fattispecie l'operaio infortunato si era recato, durante il turno di lavoro e per esigenze connesse all'attività lavorativa, su un tetto di un capannone in costruzione dove il giorno prima erano stati effettuati dei lavori)]
2. L’obbligo di controllare ed esigere che i Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) vengano utilizzati
Non è sufficiente mettere a disposizione dei lavoratori i dispositivi di protezione individuale: il datore di lavoro deve controllare ed esigere che gli stessi vengano costantemente impiegati.
L'imprenditore ha l'obbligo di attuare, e i dirigenti e i preposti di fare osservare, tutte quelle misure di sicurezza generiche e specifiche atte a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro sia a norma dell'art. 2087 c.c., sia a norma della legislazione antinfortunistica [Cassazione penale sez. IV, 20 novembre 1990].
L'obbligo di esigere l'uso dei DPI
Il datore di lavoro, in quanto tenuto ad approntare tutte le necessarie misure antinfortunistiche, «non esaurisce il proprio compito con l'allestimento dei mezzi di protezione (nella specie, camice di lavoro) e con l'emanazione dei relativi ordini esecutivi, ma ha l'ulteriore dovere di assicurarsi del loro uso da parte degli operai; nè l'obbligo di vigilanza può ritenersi adempiuto quando sia esercitato soltanto all'inizio della lavorazione» [Cassazione penale, sez. IV, 27 febbraio 1987], ma deve essere adempiuto durante tutto il tempo durante il quale il lavoratore presta la propria attività lavorativa per l’azienda.
Va aggiunto che «le norme di protezione e di sicurezza, poste a tutela della integrità fisica del lavoratore, devono essere attuate anche contro la volontà del lavoratore stesso; sicchè risponde della loro violazione il datore di lavoro che non esplichi la necessaria sorveglianza alla rigorosa osservanza delle norme medesime» [Cassazione penale, sez. IV, 17 febbraio 1984, Cassazione penale, sez. IV, 17 giugno 198].
È perciò «del tutto irrilevante, ai fini della esclusione della responsabilità penale (sempre connessa alla violazione delle norme prevenzionistiche, derivi da essa l’evento lesivo di danno o meno), che il datore di lavoro abbia consegnato ai singoli operai i mezzi personali di protezione (come caschi e cinture di sicurezza con bretelle richiesti dagli art. 10 e 17 d.P.R. n. 164/1956 e dagli art. 381, 4, lett. c, e 11 del d.P.R. n. 547/1955), qualora non risulti essersi minimamente preoccupato di controllare e di esigere in concreto che questi mezzi non solo venissero usati, ma addirittura venissero tenuti in cantiere» [Pretura Torino 20 ottobre 1976].
3. Diritti dei lavoratori per la tutela dei propri diritti
Le molte attribuzioni e prerogative che il D. Lgs. n. 626/94 conferisce al RLS, ha stabilito la cassazione, non inficiano il alcun modo ne sminuiscono i diritti dei lavoratori uti singuli: «in tema di tutela delle condizioni di lavoro, il fatto che alcune norme attribuiscono alle rappresentanze sindacali aziendali (vedi art. 9 e 19 l. n. 300 del 1970) o al rappresentante per la sicurezza (vedi art. 18 d.lgs. n. 626 del 1994) il potere di controllare in azienda l'adozione delle misure di prevenzione e di agire presso le autorità competenti quando dette misure non vengano adottate ovvero non si rivelino idonee, non esclude che i lavoratori uti singuli possano agire in giudizio per ottenere l'adozione da parte del datore di lavoro delle misure idonee a tutelare la propria integrità fisica, ai sensi dell'art. 2087 c.c., posto che la salute costituisce oggetto di un autonomo diritto primario assoluto, e non solo un diritto o un interesse della collettività. (Nella specie alcuni dipendenti di una azienda municipalizzata di igiene urbana avevano agito in giudizio per ottenere l'adozione di alcune misure ritenute idonee ad evitare la propagazione degli agenti infettivi e chimici raccolti negli indumenti di lavoro, quali l'uso di armadietti per tenere separati detti indumenti da quelli "civili" e l'organizzazione di un servizio di lavaggio e disinfezione dei predetti indumenti che li esonerasse dal portarli nell'ambiente domestico)» [Cassazione civile sez. lav., 9 ottobre 1997, n. 980].
4. Subappalto: responsabilità dell’appaltatore
Più in generale, in forza dell'obbligo della massima sicurezza tecnica-organizzativa-procedurale concretamente fattibile imposto al datore di lavoro dall'articolo 2087 del Codice civile e delle norme specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, "il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall'art. 40, comma 2, c.p. Ne segue che il datore di lavoro, seppure in una situazione di illegittimità (nella specie derivante dalla sua posizione di subappaltante di pura mano d'opera), ha il dovere di accertarsi che l'ambiente di lavoro (nella specie il cantiere edile apprestato dall'imprenditore appaltante) abbia i requisiti di affidabilità e di legalità quanto a presidi antinfortunistici, idonei a realizzare la tutela del lavoratore, e di vigilare costantemente a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l'opera. (Fattispecie relativa alla morte di un lavoratore edile per mancato apprestamento dei prescritti presidi antinfortunistici in un cantiere, in relazione alla quale la S.C. ha ritenuto colpevoli di omicidio colposo sia l'appaltatore, sia il soggetto che aveva prestato in subappalto la mano d'opera)" [Cassazione penale sez. un., 25 novembre 1998, n. 5].
5. Responsabilità del datore di lavoro dell’impresa subappaltatrice
Sussiste la responsabilità - per omissione di cautela - del datore di lavoro, impresa subappaltatrice di alcuni lavori, per l'infortunio occorso al proprio dipendente nel cantiere della società committente e nell'espletamento dei lavori appaltati, posto che, ai sensi dell'art. 2087 c.c., il datore di lavoro, anche quando esistono nel cantiere specifici strumenti antinfortunistici, ha l'obbligo di imporne e di controllarne l'effettivo utilizzo da parte del lavoratore [Pretura Milano, 7 gennaio 1998, Mezzo c. Soc. B.C. studio e altro].
6. Appalto vietato di manodopera
Il datore di lavoro, in forza della disposizione generale di cui all’art. 2087 cod. civ. e di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica è costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con la conseguenza che, inottemperando agli obblighi di tutela, correttamente l’evento lesivo gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dal secondo comma dell’art. 40 cod. pen.. Tale posizione di garanzia, e gli obblighi conseguenziali, non vengono meno nel caso in cui si versi in una situazione di illegittimità, quale è quella della prestazione di pura manodopera [Cass. Sezioni Unite Penali 11.3.99 n. 5, Loparco]..
7. Art. 2087 c.c. e la tutela dell'impiegato coinvolto in rapine
«Ai sensi dell'art. 2087 c.c., che è norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, l'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l'adozione - ed il mantenimento non solo di misure di tipo igienico - sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell'ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività pur se allo stesso non collegate direttamente come le aggressioni conseguenti all'attività criminosa di terzi, in relazione alla frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese (in particolare, banche) ed alla probabilità del verificarsi del relativo rischio, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 e giustificandosi l'interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.) sia dei principi di correttezza e buonafede (artt. II 75 e 13 75 c.c.) cui deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, (nella specie, l'impugnata sentenza confermata, sul punto, dalla S.C. - aveva affermato la risarcibilità dei danni subiti da un impiegato di banca, rimasto coinvolto in tre rapine, a seguito delle quali aveva riportato un grave stato di malattia nervosa, avendo rilevato come il datore di lavoro, pur mettendo in opera le misure di sicurezza minime previste da un accordo aziendale in materia, non aveva provveduto a garantire il piantonamento dell'agenzia alla quale era addetto il lavoratore né ad attivare un sistema d'allarme collegato con istituti di vigilanza o con le forze dell'ordine)».
In caso di attività aziendale che comporti rischi extralavorativi prevedibili ed evitabili alla stregua dei comuni criteri di diligenza, il datore di lavoro che non abbia predisposto gli adeguati mezzi di tutela o li abbia predisposti in misura non idonea, risponde del danno subito dal dipendente (nella specie, è stata ritenuta la responsabilità dell'istituto di credito per inadeguatezza del livello di sicurezza, stante il nesso causale tra l'omissione delle misure di sicurezza obbligatorie ex art. 2087 c.c. e il danno riportato da un dipendente a seguito di rapina) [Cassazione civile sez. lav., 20 aprile 1998, n. 4012].
Nella giurisprudenza di merito è anche presente un orientamento opposto: Nella giurisprudenza di merito è invece rintracciabile un orientamento opposto: «poiché la prescrizione dell'art. 2087 c.c. costituisce norma "di chiusura" che consente certamente di ampliare l'oggetto dell'obbligazione dell'imprenditore anche a situazioni non contemplate, se ricollegabili, comunque, alle specifiche caratteristiche dell'impresa e del servizio reso, una inosservanza della stessa è individuabile solo ove risulti che le misure concretamente attuate siano da ritenersi del tutto inadeguate, in relazione sia alla possibilità di avvalersi di mezzi tecnologicamente più avanzati ed idonei, sia alle misure che vengano di norma adottate nel settore. (Nella specie, si è esclusa la violazione dell'art. 2087 c.c. e la conseguente responsabilità risarcitoria, per i presunti danni psichici subiti da un dipendente a seguito di rapina, da parte di un istituto di credito per non avere questo sufficientemente garantito la sicurezza del personale da aggressioni provenienti da terzi) [Pretura Roma 3 gennaio 1992].
8. Danno da amianto
«In ipotesi di mesotelioma, causato al lavoratore da esposizione ad amianto, in assenza di adeguate misure di protezione, va ritenuta la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., indipendentemente dall'effettiva conoscenza, da parte del datore di lavoro, della pericolosità dell'amianto all'epoca dei fatti, posto che: da un lato l'art. 2087 c.c. impone all'imprenditore non solo il rispetto della normativa antinfortunistica vigente, ma anche l'adozione di tutte le misure di prevenzione necessarie, in base alla particolarità del lavoro, all'esperienza e alla tecnica; da un altro lato, la potenziale pericolosità dell'amianto costituiva in Italia dato scientifico già acquisito, almeno sin dagli anni quaranta; e, da un altro lato ancora, la colpa datoriale ex art. 2087 c.c. non presuppone la specifica prevedibilità della malattia poi concretamente verificatasi a conseguenza di un particolare lavoro, ma la generica prevedibilità di conseguenze dannose, comunque riconducibili alla particolarità del lavoro» [Pretura Torino, 10 novembre 1995]
9. Mobbing e art. 2087 C.C.
L’articolo 2087 del Codice civile, ai sensi del quale il datore di lavoro deve adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore (in base alle particolarità della mansione, all’esperienza e alla tecnica – principio della massima sicurezza tecnica-organizzativa e procedurale), costituisce la prima barriera legale alla quale fare ricorso in tali situazioni di persecuzione.
Mobbing e art. 2087 c.c.
Perciò “deve indubbiamente essere chiamato a rispondere il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 cc, essendo questi tenuto a garantire l’integrità fisio-psichica dei propri dipendenti e, quindi, ad impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti” (Tribunale di Torino, giudice del lavoro, dott. Vincenzo CIOCCHETTI – Erriquez c. soc. Ergom Materie Plastiche Sentenza n. 5050/99, 16 novembre 1999). Infatti «i valori espressi dall'art. 41 della Costituzione» giustificano «una valutazione negativa, da parte del legislatore, dei comportamenti dell'imprenditore che, per imprudenza, negligenza o imperizia, non si adoperi, anche al di là degli obblighi specificamente sanzionati, per ridurre l'esposizione al rischio dei propri dipendenti» (Corte costituzionale, 18 luglio 1996 n. 312).
Secondo parte della giurisprudenza (v. C. Cass. 21 dicembre 1998 n. 12763) la responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. può concorrere con quella extracontrattuale originata dalla violazione di diritti soggettivi primari (artt. 32 e 41, comma 2 Cost.). Sul datore di lavoro grava, infatti, oltre alla specifica responsabilità stabilita dall'art. 2049 c.c. (la responsabilità per fatto illecito dei suoi dipendenti commesso nell'esercizio delle incombenze lavorative), anche il generale obbligo previsto dall'art. 2043c.c. (norma in base alla quale, come è noto, "qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno").
Obbligo del datore di lavoro di agire contro il mobbing
Tale norma - «interpretata dalla giurisprudenza alla luce dell'art. 32 Cost. (diritto alla salute), dell'art. 41, comma 2, Cost. (che limita la libertà di iniziativa economica privata, vietandone l'esercizio con modalità tali da pregiudicare la sicurezza e la dignità umana) e degli artt.1175 e 1375 c.c. (principio di correttezza e di buona fede) - impone al datore di lavoro di attuare tutte le misure generiche di prudenza e diligenza necessarie al fine di tutelare l'integrità psicofisica del lavoratore (v. C. Cass. 17luglio 1995 n. 7768)».
Ciò implica per il datore «non solo il divieto di compiere qualsiasi comportamento lesivo dell'integrità fisica e della personalità morale del dipendente, ma anche il dovere di prevenire e scoraggiare simili condotte nell'ambito dello svolgimento dell'attività lavorativa. L'inadempimento di tale obbligo genera la responsabilità contrattuale del datore di lavoro (v. Corte Cass. 5/2/2000 n. 1307).
L'attività stressante e il mobbing
Integra un caso di mobbing e, quindi, di responsabilità contrattuale del datore di lavoro (che nasce sempre dalla combinazione degli artt. 2087 c.c., 32 e 41 Cost.) anche la sottoposizione del lavoratore a un'attività estenuante, o la richiesta di un impegno eccessivo, che eccede, secondo le regole della comune esperienza, la normale tollerabilità.
Il mancato adeguamento dell'organico aziendale (in quanto e se determinante un eccessivo carico di lavoro), nonché il mancato impedimento di un superlavoro eccedente - secondo le regole di comune esperienza - la normale tollerabilità, con conseguenti danni alla salute del lavoratore, costituisce violazione degli art. 42, comma 2, cost. e 2087 c.c., e ciò anche quando l'eccessivo impegno sia frutto di una scelta del lavoratore (estrinsecantesi nell'accettazione di straordinario continuativo - ancorché contenuto nel cosiddetto monte ore massimo contrattuale - o nella rinuncia a periodi di ferie), atteso che il comportamento del lavoratore non esime il datore di lavoro dall'adottare tutte le misure idonee alla tutela dell'integrità fisico-psichica dei dipendenti, comprese quelle intese ad evitare l'eccessività di impegno da parte di soggetti in condizioni di subordinazione socio-economica” [Cassazione civile sez. lav., 1 settembre 1997, n. 8267].
10. Discriminazione sessuale e art. 2087
Il comportamento del dirigente che, in un contesto lavorativo caratterizzato da fastidiosi e rumoreggianti apprezzamenti da parte dei lavoratori maschi in ordine all'abbigliamento di una lavoratrice, inviti quest'ultima a modificare l'abbigliamento anziché invitare i lavoratori ad astenersi da comportamenti offensivi deve considerarsi illecito perché lesivo dei diritti di non discriminazione per motivi di sesso ai sensi degli artt. 3 Cost., 1 L. 903/77 e 4 L. 125/91, nonché sotto il profilo della violazione della dignità e della riservatezza della lavoratrice ex art. 2 Cost., con conseguente obbligo del datore di lavoro di risarcire il danno, ai sensi degli artt. 2049 e 2087 c.c., eventualmente da liquidarsi in via equitativa (nella fattispecie, il responsabile del reparto aveva detto alla lavoratrice di non indossare più la minigonna ed evitare vestiti troppo scollati, che turbavano gli addetti al reparto, invitandola a indossare una tuta da metalmeccanico) (Pret. Milano 12/1/95, est. Curcio, in D&L 1995, 349, nota VETTOR, Minigonna e discriminazione sessuale)
11. Molestie sessuali
Alla lavoratrice vittima di molestie sessuali spetta il risarcimento del danno morale, da liquidarsi in via equitativa, di cui sono responsabili in solido, ai sensi degli artt. 2087, 2043, 2049 c.c., sia l'autore dell'illecito che la società datrice di lavoro (Pret. Milano 27 maggio 1996, est. Curcio).
Obbligo del datore di lavoro di prevenire le molestie
Dalle norme vigenti «è agevole desumere a carico del datore di lavoro l'esistenza di un obbligo primario e di un obbligo strumentale, essendo al suddetto datore di lavoro, innanzi tutto, vietato di porre in essere quei comportamenti commissivi dai quali possa derivare la lesione dei beni garantiti (dalla medesima disposizione di legge e dagli articoli della Costituzione sopra indicati) e, inoltre, essendogli fatto obbligo di predisporre quelle cautele che valgono a tutelare i beni in questione». In tal senso «il contenuto dell'obbligo previsto dall'art. 2087 c.c. non è circoscritto al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, cosiddetta protettiva, che statuisce precisi adempimenti positivi tramite l'adozione di misure adatte al caso concreto, ma soprattutto richiede che non venga posto in essere un comportamento che violi il diritto alla integrità psicofisica del lavoratore; l'esistenza di tale comportamento, infatti, in quanto determinato da dolo o da colpa e attuato nel luogo e durante l'orario e il compimento dell'attività di lavoro, costituisce di per sè fonte di rispettabilità contrattuale per il datore di lavoro, integrando lo stesso un adempimento della suddetta obbligazione primaria prevista dalla legge (oltre che dei doveri di buona fede e di correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., giustamente pure indicati nel ricorso)» (Cassazione civile sez. lav., 17 luglio 1995, n. 7768, Rossi e altro c. Felici)
12. Fumo passivo
In base alle norme costituzionale e di legge vigenti (art. 32 Cost., art. 2087 C.C., articoli 1, 3, 4, 31 D. Lgs. n. 626/94, art. 9 D.P.R. n. 303/1956) i datori di lavoro «devono attivarsi per verificare che in concreto la salute dei lavoratori sia adeguatamente tutelata» e quindi devono proteggere in via preventiva i non fumatori nei luoghi di lavoro.
La prescrizione è «soddisfatta quando, mediante una serie di misure adottate secondo le diverse circostanze, il rischio derivante dal fumo passivo, se non eliminato, sia ridotto ad una soglia talmente bassa da far ragionevolmente escludere che la loro salute sia messa a repentaglio», sentenza n. 399 dell'11 dicembre 1996 (depositata il 20 dicembre 1996) della Corte Costituzionale (Pres. Granata).
Prescrizioni particolari recanti l'obbligo di imporre il divieto di fumare sono dettate in relazione alle sostanze cancerogene dagli artt. 64 lettera b) e 65 comma 2 del D. Lgs. n. 626/94. L'articolo 14 comma 4 del D.P.R n. 303/1956 prevede che nei locali di riposo si devono adottare misure adeguate per la protezione dei non fumatori contro gli inconvenienti del fumo [ sentenza n. 399 dell'11 dicembre 1996 (depositata il 20 dicembre 1996) della Corte Costituzionale (Pres. Granata)].
L’attuazione di tali misure preventive costituisce un caso particolare di applicazione della norma generale di cui all'art. 2087 del codice civile.
Articolo a cura di Rolando Dubini, avvocato in Milano, tratto da “Salute e sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro: Manuale teorico-pratico. Normativa comunitaria, legislazione nazionale, prassi amministrativa.” di Rolando Dubini e Francesco Molfese.
La seconda parte dell'articolo sarà pubblicata sul numero di domani.
Ai sensi dell'art. 2087 del Codice civile (principio della massima sicurezza tecnica, organizzativa e procedurale concretamente fattibile) deve affermarsi, secondo la Corte di Cassazione, che «in linea di principio le norme di prevenzione degli infortuni trovano applicazione anche a beneficio degli estranei che si trovino nei luoghi di lavoro, poiché la loro integrità fisica è meritevole di tutela non meno di quella dei lavoratori» [Cassazione penale (sez. IV, 26 aprile 1998, n. 5020 Mustone): fattispecie relativa ad un cantiere edile posto all'interno di un'abitazione civile, nel quale un estraneo si introduce senza giustificato motivo e nello scendere lungo una scalinata in costruzione e priva di parapetti, passamano, tavole fermapiede e non sbarrata, scivola, batte la testa contro lo spigolo di un gradino e muore] [Cassazione penale Sentenza n. 6187 del 19 novembre 1999].
Con sentenza del 18 ottobre 2001 n. 1673 la Cassazione (sez. IV penale) ha ribadito che "i datori di lavoro, dirigenti o preposti sono tenuti ad attuare tutte le misure di sicurezza previste dalla normativa antinfortunistica indipendentemente dall'individuazione di coloro nei cui confronti si rivolge la tutela approntata dal legislatore: nel caso si verifichi un infortunio per inosservanza degli obblighi di sicurezza imposti, detta inosservanza graverà su chi detti obblighi avrebbe dovuto far rispettare, a prescindere dal fatto che ad infortunarsi sia stato un lavoratore subordinato o, addirittura, un estraneo all'ambito imprenditoriale, purchè sia ravvisabile il nesso causale con l'accertata violazione.
L'interpretazione prevalente dell'obbligo
Queste sentenze riconfermano “un principio di tutela generale per cui spetta al datore di lavoro attuare la “sicurezza in sé” dell'ambiente di lavoro, e, quindi, proteggere la sicurezza di qualunque persona - anche estranea - venga a trovarsi in tale ambiente di lavoro” (Guariniello, v. anche Cass. 14 ottobre 1992, Oppici e altro; Cass. 14 settembre 1991, Di Fazio, ivi, 1991, nonché Smuraglia).
L'interpretazione minoritaria
Secondo un differente indirizzo interpretativo, non ogni estraneo è tutelato, bensì soltanto colui che sia autorizzato ad entrare nel luogo di lavoro o che comunque vi acceda per ragioni connesse all'attività lavorativa.
Si vedano, in tal senso Cass. penale 10 ottobre 1985, sez. IV, Zonca e altro [Le norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro non sono poste a tutela di ogni persona che si trovi comunque sul luogo di lavoro, magari per curiosità o abusivamente, ma solo a tutela dei lavoratori e di coloro che si trovino in una situazione analoga a quella di questi ultimi e cioè che siano entrati in fabbrica o in cantiere per un qualsiasi motivo connesso con il lavoro (ispettore, committente, fornitore, visitatore autorizzato). (Nella fattispecie è stato ritenuto sussistente il delitto di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ai danni di operaio dipendente di altro cantiere che per consuetudine, non contrastata, era solito trattenersi nel cantiere vicino ove ebbe a verificarsi l'evento mortale)] e Cass. 26 febbraio 1992, sez. IV, Pampirio, [In tema di violazione di normativa antinfortunistica in un cantiere edile, per "ambiente di lavoro" deve intendersi tutto il luogo o lo spazio in cui l'attività lavorativa si sviluppa ed in cui, indipendentemente dall'attualità dell'attività, coloro che siano autorizzati ad accedere nel cantiere e coloro che vi accedano per ragioni connesse all'attività lavorativa, possono recarsi o sostare anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro. (Nella fattispecie l'operaio infortunato si era recato, durante il turno di lavoro e per esigenze connesse all'attività lavorativa, su un tetto di un capannone in costruzione dove il giorno prima erano stati effettuati dei lavori)]
2. L’obbligo di controllare ed esigere che i Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) vengano utilizzati
Non è sufficiente mettere a disposizione dei lavoratori i dispositivi di protezione individuale: il datore di lavoro deve controllare ed esigere che gli stessi vengano costantemente impiegati.
L'imprenditore ha l'obbligo di attuare, e i dirigenti e i preposti di fare osservare, tutte quelle misure di sicurezza generiche e specifiche atte a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro sia a norma dell'art. 2087 c.c., sia a norma della legislazione antinfortunistica [Cassazione penale sez. IV, 20 novembre 1990].
L'obbligo di esigere l'uso dei DPI
Il datore di lavoro, in quanto tenuto ad approntare tutte le necessarie misure antinfortunistiche, «non esaurisce il proprio compito con l'allestimento dei mezzi di protezione (nella specie, camice di lavoro) e con l'emanazione dei relativi ordini esecutivi, ma ha l'ulteriore dovere di assicurarsi del loro uso da parte degli operai; nè l'obbligo di vigilanza può ritenersi adempiuto quando sia esercitato soltanto all'inizio della lavorazione» [Cassazione penale, sez. IV, 27 febbraio 1987], ma deve essere adempiuto durante tutto il tempo durante il quale il lavoratore presta la propria attività lavorativa per l’azienda.
Va aggiunto che «le norme di protezione e di sicurezza, poste a tutela della integrità fisica del lavoratore, devono essere attuate anche contro la volontà del lavoratore stesso; sicchè risponde della loro violazione il datore di lavoro che non esplichi la necessaria sorveglianza alla rigorosa osservanza delle norme medesime» [Cassazione penale, sez. IV, 17 febbraio 1984, Cassazione penale, sez. IV, 17 giugno 198].
È perciò «del tutto irrilevante, ai fini della esclusione della responsabilità penale (sempre connessa alla violazione delle norme prevenzionistiche, derivi da essa l’evento lesivo di danno o meno), che il datore di lavoro abbia consegnato ai singoli operai i mezzi personali di protezione (come caschi e cinture di sicurezza con bretelle richiesti dagli art. 10 e 17 d.P.R. n. 164/1956 e dagli art. 381, 4, lett. c, e 11 del d.P.R. n. 547/1955), qualora non risulti essersi minimamente preoccupato di controllare e di esigere in concreto che questi mezzi non solo venissero usati, ma addirittura venissero tenuti in cantiere» [Pretura Torino 20 ottobre 1976].
3. Diritti dei lavoratori per la tutela dei propri diritti
Le molte attribuzioni e prerogative che il D. Lgs. n. 626/94 conferisce al RLS, ha stabilito la cassazione, non inficiano il alcun modo ne sminuiscono i diritti dei lavoratori uti singuli: «in tema di tutela delle condizioni di lavoro, il fatto che alcune norme attribuiscono alle rappresentanze sindacali aziendali (vedi art. 9 e 19 l. n. 300 del 1970) o al rappresentante per la sicurezza (vedi art. 18 d.lgs. n. 626 del 1994) il potere di controllare in azienda l'adozione delle misure di prevenzione e di agire presso le autorità competenti quando dette misure non vengano adottate ovvero non si rivelino idonee, non esclude che i lavoratori uti singuli possano agire in giudizio per ottenere l'adozione da parte del datore di lavoro delle misure idonee a tutelare la propria integrità fisica, ai sensi dell'art. 2087 c.c., posto che la salute costituisce oggetto di un autonomo diritto primario assoluto, e non solo un diritto o un interesse della collettività. (Nella specie alcuni dipendenti di una azienda municipalizzata di igiene urbana avevano agito in giudizio per ottenere l'adozione di alcune misure ritenute idonee ad evitare la propagazione degli agenti infettivi e chimici raccolti negli indumenti di lavoro, quali l'uso di armadietti per tenere separati detti indumenti da quelli "civili" e l'organizzazione di un servizio di lavaggio e disinfezione dei predetti indumenti che li esonerasse dal portarli nell'ambiente domestico)» [Cassazione civile sez. lav., 9 ottobre 1997, n. 980].
4. Subappalto: responsabilità dell’appaltatore
Più in generale, in forza dell'obbligo della massima sicurezza tecnica-organizzativa-procedurale concretamente fattibile imposto al datore di lavoro dall'articolo 2087 del Codice civile e delle norme specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, "il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall'art. 40, comma 2, c.p. Ne segue che il datore di lavoro, seppure in una situazione di illegittimità (nella specie derivante dalla sua posizione di subappaltante di pura mano d'opera), ha il dovere di accertarsi che l'ambiente di lavoro (nella specie il cantiere edile apprestato dall'imprenditore appaltante) abbia i requisiti di affidabilità e di legalità quanto a presidi antinfortunistici, idonei a realizzare la tutela del lavoratore, e di vigilare costantemente a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l'opera. (Fattispecie relativa alla morte di un lavoratore edile per mancato apprestamento dei prescritti presidi antinfortunistici in un cantiere, in relazione alla quale la S.C. ha ritenuto colpevoli di omicidio colposo sia l'appaltatore, sia il soggetto che aveva prestato in subappalto la mano d'opera)" [Cassazione penale sez. un., 25 novembre 1998, n. 5].
5. Responsabilità del datore di lavoro dell’impresa subappaltatrice
Sussiste la responsabilità - per omissione di cautela - del datore di lavoro, impresa subappaltatrice di alcuni lavori, per l'infortunio occorso al proprio dipendente nel cantiere della società committente e nell'espletamento dei lavori appaltati, posto che, ai sensi dell'art. 2087 c.c., il datore di lavoro, anche quando esistono nel cantiere specifici strumenti antinfortunistici, ha l'obbligo di imporne e di controllarne l'effettivo utilizzo da parte del lavoratore [Pretura Milano, 7 gennaio 1998, Mezzo c. Soc. B.C. studio e altro].
6. Appalto vietato di manodopera
Il datore di lavoro, in forza della disposizione generale di cui all’art. 2087 cod. civ. e di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica è costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con la conseguenza che, inottemperando agli obblighi di tutela, correttamente l’evento lesivo gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dal secondo comma dell’art. 40 cod. pen.. Tale posizione di garanzia, e gli obblighi conseguenziali, non vengono meno nel caso in cui si versi in una situazione di illegittimità, quale è quella della prestazione di pura manodopera [Cass. Sezioni Unite Penali 11.3.99 n. 5, Loparco]..
7. Art. 2087 c.c. e la tutela dell'impiegato coinvolto in rapine
«Ai sensi dell'art. 2087 c.c., che è norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, l'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l'adozione - ed il mantenimento non solo di misure di tipo igienico - sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell'ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività pur se allo stesso non collegate direttamente come le aggressioni conseguenti all'attività criminosa di terzi, in relazione alla frequenza assunta da tale fenomeno rispetto a determinate imprese (in particolare, banche) ed alla probabilità del verificarsi del relativo rischio, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 e giustificandosi l'interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.) sia dei principi di correttezza e buonafede (artt. II 75 e 13 75 c.c.) cui deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, (nella specie, l'impugnata sentenza confermata, sul punto, dalla S.C. - aveva affermato la risarcibilità dei danni subiti da un impiegato di banca, rimasto coinvolto in tre rapine, a seguito delle quali aveva riportato un grave stato di malattia nervosa, avendo rilevato come il datore di lavoro, pur mettendo in opera le misure di sicurezza minime previste da un accordo aziendale in materia, non aveva provveduto a garantire il piantonamento dell'agenzia alla quale era addetto il lavoratore né ad attivare un sistema d'allarme collegato con istituti di vigilanza o con le forze dell'ordine)».
In caso di attività aziendale che comporti rischi extralavorativi prevedibili ed evitabili alla stregua dei comuni criteri di diligenza, il datore di lavoro che non abbia predisposto gli adeguati mezzi di tutela o li abbia predisposti in misura non idonea, risponde del danno subito dal dipendente (nella specie, è stata ritenuta la responsabilità dell'istituto di credito per inadeguatezza del livello di sicurezza, stante il nesso causale tra l'omissione delle misure di sicurezza obbligatorie ex art. 2087 c.c. e il danno riportato da un dipendente a seguito di rapina) [Cassazione civile sez. lav., 20 aprile 1998, n. 4012].
Nella giurisprudenza di merito è anche presente un orientamento opposto: Nella giurisprudenza di merito è invece rintracciabile un orientamento opposto: «poiché la prescrizione dell'art. 2087 c.c. costituisce norma "di chiusura" che consente certamente di ampliare l'oggetto dell'obbligazione dell'imprenditore anche a situazioni non contemplate, se ricollegabili, comunque, alle specifiche caratteristiche dell'impresa e del servizio reso, una inosservanza della stessa è individuabile solo ove risulti che le misure concretamente attuate siano da ritenersi del tutto inadeguate, in relazione sia alla possibilità di avvalersi di mezzi tecnologicamente più avanzati ed idonei, sia alle misure che vengano di norma adottate nel settore. (Nella specie, si è esclusa la violazione dell'art. 2087 c.c. e la conseguente responsabilità risarcitoria, per i presunti danni psichici subiti da un dipendente a seguito di rapina, da parte di un istituto di credito per non avere questo sufficientemente garantito la sicurezza del personale da aggressioni provenienti da terzi) [Pretura Roma 3 gennaio 1992].
8. Danno da amianto
«In ipotesi di mesotelioma, causato al lavoratore da esposizione ad amianto, in assenza di adeguate misure di protezione, va ritenuta la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., indipendentemente dall'effettiva conoscenza, da parte del datore di lavoro, della pericolosità dell'amianto all'epoca dei fatti, posto che: da un lato l'art. 2087 c.c. impone all'imprenditore non solo il rispetto della normativa antinfortunistica vigente, ma anche l'adozione di tutte le misure di prevenzione necessarie, in base alla particolarità del lavoro, all'esperienza e alla tecnica; da un altro lato, la potenziale pericolosità dell'amianto costituiva in Italia dato scientifico già acquisito, almeno sin dagli anni quaranta; e, da un altro lato ancora, la colpa datoriale ex art. 2087 c.c. non presuppone la specifica prevedibilità della malattia poi concretamente verificatasi a conseguenza di un particolare lavoro, ma la generica prevedibilità di conseguenze dannose, comunque riconducibili alla particolarità del lavoro» [Pretura Torino, 10 novembre 1995]
9. Mobbing e art. 2087 C.C.
L’articolo 2087 del Codice civile, ai sensi del quale il datore di lavoro deve adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore (in base alle particolarità della mansione, all’esperienza e alla tecnica – principio della massima sicurezza tecnica-organizzativa e procedurale), costituisce la prima barriera legale alla quale fare ricorso in tali situazioni di persecuzione.
Mobbing e art. 2087 c.c.
Perciò “deve indubbiamente essere chiamato a rispondere il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 cc, essendo questi tenuto a garantire l’integrità fisio-psichica dei propri dipendenti e, quindi, ad impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti” (Tribunale di Torino, giudice del lavoro, dott. Vincenzo CIOCCHETTI – Erriquez c. soc. Ergom Materie Plastiche Sentenza n. 5050/99, 16 novembre 1999). Infatti «i valori espressi dall'art. 41 della Costituzione» giustificano «una valutazione negativa, da parte del legislatore, dei comportamenti dell'imprenditore che, per imprudenza, negligenza o imperizia, non si adoperi, anche al di là degli obblighi specificamente sanzionati, per ridurre l'esposizione al rischio dei propri dipendenti» (Corte costituzionale, 18 luglio 1996 n. 312).
Secondo parte della giurisprudenza (v. C. Cass. 21 dicembre 1998 n. 12763) la responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. può concorrere con quella extracontrattuale originata dalla violazione di diritti soggettivi primari (artt. 32 e 41, comma 2 Cost.). Sul datore di lavoro grava, infatti, oltre alla specifica responsabilità stabilita dall'art. 2049 c.c. (la responsabilità per fatto illecito dei suoi dipendenti commesso nell'esercizio delle incombenze lavorative), anche il generale obbligo previsto dall'art. 2043c.c. (norma in base alla quale, come è noto, "qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno").
Obbligo del datore di lavoro di agire contro il mobbing
Tale norma - «interpretata dalla giurisprudenza alla luce dell'art. 32 Cost. (diritto alla salute), dell'art. 41, comma 2, Cost. (che limita la libertà di iniziativa economica privata, vietandone l'esercizio con modalità tali da pregiudicare la sicurezza e la dignità umana) e degli artt.1175 e 1375 c.c. (principio di correttezza e di buona fede) - impone al datore di lavoro di attuare tutte le misure generiche di prudenza e diligenza necessarie al fine di tutelare l'integrità psicofisica del lavoratore (v. C. Cass. 17luglio 1995 n. 7768)».
Ciò implica per il datore «non solo il divieto di compiere qualsiasi comportamento lesivo dell'integrità fisica e della personalità morale del dipendente, ma anche il dovere di prevenire e scoraggiare simili condotte nell'ambito dello svolgimento dell'attività lavorativa. L'inadempimento di tale obbligo genera la responsabilità contrattuale del datore di lavoro (v. Corte Cass. 5/2/2000 n. 1307).
L'attività stressante e il mobbing
Integra un caso di mobbing e, quindi, di responsabilità contrattuale del datore di lavoro (che nasce sempre dalla combinazione degli artt. 2087 c.c., 32 e 41 Cost.) anche la sottoposizione del lavoratore a un'attività estenuante, o la richiesta di un impegno eccessivo, che eccede, secondo le regole della comune esperienza, la normale tollerabilità.
Il mancato adeguamento dell'organico aziendale (in quanto e se determinante un eccessivo carico di lavoro), nonché il mancato impedimento di un superlavoro eccedente - secondo le regole di comune esperienza - la normale tollerabilità, con conseguenti danni alla salute del lavoratore, costituisce violazione degli art. 42, comma 2, cost. e 2087 c.c., e ciò anche quando l'eccessivo impegno sia frutto di una scelta del lavoratore (estrinsecantesi nell'accettazione di straordinario continuativo - ancorché contenuto nel cosiddetto monte ore massimo contrattuale - o nella rinuncia a periodi di ferie), atteso che il comportamento del lavoratore non esime il datore di lavoro dall'adottare tutte le misure idonee alla tutela dell'integrità fisico-psichica dei dipendenti, comprese quelle intese ad evitare l'eccessività di impegno da parte di soggetti in condizioni di subordinazione socio-economica” [Cassazione civile sez. lav., 1 settembre 1997, n. 8267].
10. Discriminazione sessuale e art. 2087
Il comportamento del dirigente che, in un contesto lavorativo caratterizzato da fastidiosi e rumoreggianti apprezzamenti da parte dei lavoratori maschi in ordine all'abbigliamento di una lavoratrice, inviti quest'ultima a modificare l'abbigliamento anziché invitare i lavoratori ad astenersi da comportamenti offensivi deve considerarsi illecito perché lesivo dei diritti di non discriminazione per motivi di sesso ai sensi degli artt. 3 Cost., 1 L. 903/77 e 4 L. 125/91, nonché sotto il profilo della violazione della dignità e della riservatezza della lavoratrice ex art. 2 Cost., con conseguente obbligo del datore di lavoro di risarcire il danno, ai sensi degli artt. 2049 e 2087 c.c., eventualmente da liquidarsi in via equitativa (nella fattispecie, il responsabile del reparto aveva detto alla lavoratrice di non indossare più la minigonna ed evitare vestiti troppo scollati, che turbavano gli addetti al reparto, invitandola a indossare una tuta da metalmeccanico) (Pret. Milano 12/1/95, est. Curcio, in D&L 1995, 349, nota VETTOR, Minigonna e discriminazione sessuale)
11. Molestie sessuali
Alla lavoratrice vittima di molestie sessuali spetta il risarcimento del danno morale, da liquidarsi in via equitativa, di cui sono responsabili in solido, ai sensi degli artt. 2087, 2043, 2049 c.c., sia l'autore dell'illecito che la società datrice di lavoro (Pret. Milano 27 maggio 1996, est. Curcio).
Obbligo del datore di lavoro di prevenire le molestie
Dalle norme vigenti «è agevole desumere a carico del datore di lavoro l'esistenza di un obbligo primario e di un obbligo strumentale, essendo al suddetto datore di lavoro, innanzi tutto, vietato di porre in essere quei comportamenti commissivi dai quali possa derivare la lesione dei beni garantiti (dalla medesima disposizione di legge e dagli articoli della Costituzione sopra indicati) e, inoltre, essendogli fatto obbligo di predisporre quelle cautele che valgono a tutelare i beni in questione». In tal senso «il contenuto dell'obbligo previsto dall'art. 2087 c.c. non è circoscritto al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, cosiddetta protettiva, che statuisce precisi adempimenti positivi tramite l'adozione di misure adatte al caso concreto, ma soprattutto richiede che non venga posto in essere un comportamento che violi il diritto alla integrità psicofisica del lavoratore; l'esistenza di tale comportamento, infatti, in quanto determinato da dolo o da colpa e attuato nel luogo e durante l'orario e il compimento dell'attività di lavoro, costituisce di per sè fonte di rispettabilità contrattuale per il datore di lavoro, integrando lo stesso un adempimento della suddetta obbligazione primaria prevista dalla legge (oltre che dei doveri di buona fede e di correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., giustamente pure indicati nel ricorso)» (Cassazione civile sez. lav., 17 luglio 1995, n. 7768, Rossi e altro c. Felici)
12. Fumo passivo
In base alle norme costituzionale e di legge vigenti (art. 32 Cost., art. 2087 C.C., articoli 1, 3, 4, 31 D. Lgs. n. 626/94, art. 9 D.P.R. n. 303/1956) i datori di lavoro «devono attivarsi per verificare che in concreto la salute dei lavoratori sia adeguatamente tutelata» e quindi devono proteggere in via preventiva i non fumatori nei luoghi di lavoro.
La prescrizione è «soddisfatta quando, mediante una serie di misure adottate secondo le diverse circostanze, il rischio derivante dal fumo passivo, se non eliminato, sia ridotto ad una soglia talmente bassa da far ragionevolmente escludere che la loro salute sia messa a repentaglio», sentenza n. 399 dell'11 dicembre 1996 (depositata il 20 dicembre 1996) della Corte Costituzionale (Pres. Granata).
Prescrizioni particolari recanti l'obbligo di imporre il divieto di fumare sono dettate in relazione alle sostanze cancerogene dagli artt. 64 lettera b) e 65 comma 2 del D. Lgs. n. 626/94. L'articolo 14 comma 4 del D.P.R n. 303/1956 prevede che nei locali di riposo si devono adottare misure adeguate per la protezione dei non fumatori contro gli inconvenienti del fumo [ sentenza n. 399 dell'11 dicembre 1996 (depositata il 20 dicembre 1996) della Corte Costituzionale (Pres. Granata)].
L’attuazione di tali misure preventive costituisce un caso particolare di applicazione della norma generale di cui all'art. 2087 del codice civile.
Articolo a cura di Rolando Dubini, avvocato in Milano, tratto da “Salute e sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro: Manuale teorico-pratico. Normativa comunitaria, legislazione nazionale, prassi amministrativa.” di Rolando Dubini e Francesco Molfese.
La seconda parte dell'articolo sarà pubblicata sul numero di domani.
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