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L’individuazione della figura del datore di lavoro e del lavoratore

Gerardo Porreca

Autore: Gerardo Porreca

Categoria: Agricoltura

04/04/2011

Gli obblighi che incombono sul datore di lavoro nei confronti dei propri lavoratori non possono comunque venire meno anche nel caso di un rapporto fra padre e figlio in una impresa familiare. A cura di G. Porreca.



 
 
Commento a cura di Gerardo Porreca
 
Sono perfettamente in linea con i principi generali, fissati dalle disposizioni di legge vigenti in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro di cui al D. Lgs. 9/4/2008 n. 81, le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di Cassazione in questa sentenza e che riguardano in particolare la definizione sia di datore di lavoro che del lavoratore ai fini della applicazione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro.
Il D. Lgs. n. 81/2008 tutela la sicurezza di tutte le forme di lavoro anche quando non sussista un rapporto formale di lavoro ed anche quindi, come nel caso particolare sottoposto questa volta all’esame della Corte suprema, nei riguardi di chi collabora con il titolare in una impresa familiare. L’individuazione della figura del datore di lavoro non si fonda tanto sulla presenza di un rapporto di lavoro quanto sulla responsabilità di un organizzatore di impresa e sulla sua titolarità di fatto dei poteri decisionali e di gestione alle quali corrisponde simmetricamente il dovere di predisporre le necessarie misure di sicurezza sul lavoro. D’altro canto il lavoratore non si individua solo in una condizione di dipendenza e di una sua subordinazione rispetto ad altri ma può basarsi anche solo sul fatto che lo stesso presti una attività lavorativa per conto di colui che gestisce la organizzazione della struttura essendo questa relazione di fatto che determina l’applicabilità delle disposizioni di legge in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
 
L’evento infortunistico e le imputazioni.
 
La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza pronunziata dal GUP, ha ridotta a quattro mesi la pena di reclusione inflitta dal Tribunale al titolare di una impresa artigiana riconosciuto colpevole del delitto di omicidio colposo, con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in danno del proprio figlio.
Questi, dopo aver trasportato unitamente al padre un silos per lo stoccaggio di mangimi per animali presso un caseificio per sistemarlo al posto di quello già esistente e dopo aver rimosso con il padre e portato all’esterno dello stabilimento il silos vecchio, ha preso una scala d'alluminio e, dopo averla appoggiata al fianco del silos nuovo che si trovava in posizione orizzontale sul pianale di un autocarro, ha cominciato a salire sulla sua sommità per collegare, ad un apposito anello posto sullo stesso, il gancio di una gru manovrata dal padre allorquando ha perso l'equilibrio e cadendo ha sbattuto la testa al suolo riportando ferite tali da determinarne il decesso.
Al titolare dell’impresa è stato contestato di aver cagionato per colpa consistita in generica imprudenza e più specificatamente nella violazione dell’articolo 18 comma 3 del D.P.R. n. 547 del 1955 per non aver fornito al proprio figlio, assunto quale collaboratore familiare presso la sua ditta, una scala dotata di tutti i dispositivi di sicurezza idonei a impedire lo scivolamento (piedi antisdrucciolo) nonché dell’articolo 19 dello stesso D.P.R. n. 547 del 1955 per non avere assicurato o comunque disposto che la stessa scala fosse trattenuta al piede da altra persona presente sul luogo ed ancora dell’articolo 20 comma 1 lettera d) dello stesso D.P.R. per aver mancato di disporre che la scala venisse vigilata da terra da altra persona.

 

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Il ricorso e le decisioni della Corte di Cassazione.
 
Il titolare artigiano ha fatto ricorso alla Corte di Cassazione sostenendo, tra l’altro, di non avere nei confronti del figlio nessun dovere di vigilanza in rispetto dell’articolo 18 comma 3 bis del D. Lgs. n. 81 del 2008, così come introdotto dal D. Lgs. correttivo 3/8/2009 n. 106, ed inoltre di aver confidato ragionevolmente che il figlio si facesse coadiuvare dai due operai presenti sul posto e che utilizzasse un mezzo ed un procedimento più corretto ed idoneo.
L’imputato ha sostenuto altresì che, dalla postazione in cui si trovava per comandare il movimento del braccio oleodinamico necessario per il sollevamento del silo, non poteva neppure vedere il figlio e che inoltre l'operazione in corso non era nuova alla vittima essendo poco prima stato rimosso altro silos con procedura analoga e con la collaborazione di due altri lavoratori senza problemi di sorta. Ha posto altresì in evidenza che sul mezzo sul quale era posizionato il silos è stato trovato un gommino a riprova che lo stesso si fosse staccato dalla scala poco prima dell’accaduto.
Il ricorso è stato considerato inammissibile dalla Corte di Cassazione che ha pertanto confermata la condanna dell’imputato.
In merito all’affidamento che l’imputato ha riposto nella accortezza e nella prudenza del figlio, benché giovanissimo e chiamato a collaborare da neanche un mese, la suprema Corte ha rammentato “l'indefettibilità degli obblighi che comunque incombono sul datore di lavoro e titolare della posizione di garanzia (adombrando l'ipotetico alleggerimento della stessa per effetto del tenore del Decreto Legislativo n. 81 del 2008, articolo 18, comma 3 bis come modificato dal Decreto Legislativo n. 106 del 2009 con ‘l'esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi dei medesimi articoli (19, 20, 22, 23, 24 e 25) qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitabile unicamente agli stessi’ che, però, presuppone proprio che ‘non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti’, circostanza, questa, da escludere nel caso di specie)”.
 
Il caso sottoposto all’esame della Corte di Cassazione in questa sentenza, riguardante un rapporto di lavoro fra padre e figlio, richiama alla memoria un altro caso analogo del quale si è occupato la stessa Corte e riscontrato nella sentenza n. 17581 del 7/5/2010 Sez. IV. Sentenza emessa con riferimento all’infortunio avvenuto presso una impastatrice all’interno di un laboratorio di panetteria ed occorso al figlio del titolare dell’impresa il quale, nel mentre tentava di rimuovere un residuo di lavorazione, ha subito lo schiacciamento di una mano infilata in una parte rotante sprotetta del macchinario. In tale occasione il titolare aveva sostenuto che il proprio figliolo si trovava occasionalmente presso il laboratorio e che non stava prestando attività lavorativa benché fosse alle prese con la macchina impastatrice.
In quella circostanza la suprema Corte ebbe modo di precisare che “la disciplina legale e particolarmente il Decreto Legislativo n. 626 del 1994 tutela la sicurezza di tutte le forme di lavoro anche quando non sussista un formale rapporto di lavoro; e quindi anche con riguardo a chi collabora saltuariamente in un'impresa familiare” e che “il Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 2 nel testo novellato dal Decreto Legislativo n. 242 del 1996, innovando rispetto alla formulazione originaria della norma, pone l'accento, ai fini dell'individuazione della figura del datore di lavoro, non tanto sulla titolarità del rapporto di lavoro, quanto sulla responsabilità dell'impresa, sull'esistenza di poteri decisionali.  Si fa leva, quindi, precipuamente sulla situazione di fatto: alla titolarità dei poteri di organizzazione e gestione corrisponde simmetricamente il dovere di predisporre le necessarie misure di sicurezza”. “Tale ordine concettuale”, ebbe modo di concludere in quella occasione la suprema Corte, “si rinviene implicitamente, nello stesso richiamato articolo 2, per ciò che riguarda la definizione della figura del lavoratore, caratterizzata, nel suo nucleo essenziale, dalla condizione di dipendenza, di subordinazione rispetto ad altri che assume su di sé la gestione della prestazione”.
 
 
 


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