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Il caso ed il primo iter giudiziario. Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.
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L’obbligo di controllo da parte del datore di lavoro
Commento a cura di G. Porreca.
Il datore di lavoro non può giustificare il proprio mancato controllo del lavoratore con il fatto che il lavoro che questi sta svolgendo sia di breve durata ed a prescindere dalla sua pericolosità. È quanto emerge dalla presente sentenza della Corte di Cassazione secondo la quale in questi casi si può riscontrare un comportamento omissivo dal punto di vista del controllo sia da parte del datore di lavoro che da parte di persona a questo preposta come prevista dalle disposizioni antinfortunistiche, né può invocare l’aspettativa che il lavoratore non abbia un comportamento imprudente durante la propria attività. La carenza di sicurezza nel caso in esame ha riguardato il mancato uso di una cintura di sicurezza durante un lav oro in quota mediante l’utilizzo di un cestello.
Un lavoratore dipendente di una società si trovava all'interno di una galleria lungo una strada statale ed era intento alla posa in opera di due quadri elettrici su di una corsia della galleria stessa utilizzando un cestello elevatore posto sulla verticale della linea di mezzeria dell’altra corsia aperta al pubblico allorquando il braccio telescopico che reggeva il cestello è andato improvvisamente in collisione con un autoarticolato che sopraggiungeva alla velocità di 25 km/h, provocando una rotazione e traslazione del cestello con conseguente caduta al suolo dell'operaio da un'altezza di m. 3,77 e successivo decesso in conseguenza delle gravi lesioni riportate.
Rinviato a giudizio per rispondere del reato di omicidio colposo commesso con violazione di specifiche disposizioni normative antinfortunistiche, il datore di lavoro ed amministratore unico della società per conto della quale lavorava l’infortunato deceduto è stato assolto dal G.U.P. del Tribunale sul precipuo rilievo che l'operaio, avente in quell'occasione compiti di caposquadra e preposto, aveva autonomamente deciso di non utilizzare la cintura di sicurezza con aggancio al carrello di cui pure disponeva, dispositivo di protezione che, se effettivamente usato, gli avrebbe evitato la caduta al suolo ed il conseguente decesso, donde l'impossibilità per lo stesso datore di lavoro di controllare l’imprudente iniziativa del proprio dipendente.
In accoglimento dell'impugnazione proposta dal P.M., la Corte di Appello, ritenendo fondata la conclusione, tratta da quanto emerso dalle dichiarazioni dei testi, che vi fosse una prassi che avrebbe indotto la vittima congiuntamente a suo fratello ad omettere l'uso della cintura di sicurezza ogni volta che si trattava di eseguire lavori di breve durata, perveniva invece al convincimento che l'imputato, in qualità di datore di lavoro, fosse venuto meno all'obbligo giuridico di effettuare di persona, o per mezzo di soggetto appositamente delegato, il controllo affinché fossero utilizzate le dotazioni di sicurezza individuali da parte dei lavoratori anche in occasione di "lavori brevi".
La Corte di Appello individuava pertanto la colpevolezza dell'imputato in ordine al reato ascrittogli e lo condannava ad una pena ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili individuando anche il concorso nel determinismo dell'evento a carico dell’infortunato in misura del 30%, stante la riconosciuta condotta imprudente dallo stesso posta in essere al momento dell’accaduto.
Avverso la decisione della Corte di Appello l’imputato ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, in primo luogo, che nella sentenza di secondo grado vi fosse stato un vizio logico nella motivazione in quanto la prassi secondo la quale i dispositivi di sicurezza individuali non fossero utilizzati dai lavoratori in occasione di lavori brevi era stata ritenuta dai giudici reale basandosi solo su di una tesi patrocinata dal fratello della vittima che era interessato a sostenerla per avvantaggiare la sua posizione di parte civile nel procedimento a carico del datore di lavoro. Secondo il ricorrente, infatti, quella prassi era stata smentita dagli altri dipendenti sentiti dagli ispettori del lavoro per cui si sarebbe dovuto concludere per l'esistenza tutt'al più di una condotta irregolare ma non usuale dei lavoratori ed in quanto tale non coercibile da parte del datore di lavoro o dei suoi principali collaboratori.
I giudici della Corte di Appello, inoltre, secondo quanto sostenuto dall’imputato nel ricorso, non avevano tenuto conto che il datore di lavoro deve poter fare affidamento sull'esatto e diligente adempimento da parte dei lavoratori delle regole di lavoro, sicché quando, come nel caso in esame, il lavoratore assume condotte non diligenti, anzi imprevedibili e inopinabili rispetto alle direttive ricevute, tali condotte, esulando da qualunque prassi di cantiere e non essendo conoscibili dal datore di lavoro, sono idonee ad interrompere il nesso causale tra l'omissione contestata al datore di lavoro e l’evento infortunistico intervenuto ai danni del lavoratore.
Le decisioni della Suprema Corte.
Il ricorso dell’imputato non è stato però accolto dalla Sezione IV della Corte di Cassazione la quale ha ritenute corrette le argomentazioni offerte in motivazione dalla Corte di Appello che ha valutate specificatamente le motivazioni addotte dal ricorrente. La suprema Corte, infatti, ha condivisa la versione accusatoria dell’imputato, supportata da persuasive considerazioni e da testimonianze attendibili, secondo la quale era consolidata, quanto meno da parte dei due operai specializzati che operavano al momento dell’infortunio, la prassi di non utilizzare i dispositivi di protezione individuale ed in particolare di non usare le cinture di sicurezza in occasione di lavori di breve durata, a prescindere della loro pericolosità.
Muovendo da tale premessa il comportamento del datore di lavoro è stato ritenuto pertanto “lassista e, comunque, omissivo sotto il profilo del controllo, imposto dalla normativa antinfortunistica, dell'utilizzo da parte dei lavoratori di detti dispositivi di protezione in occasione anche del c.d. lavori brevi" e lo stesso comportamento ha costituito pertanto“l'antecedente causale che ha contribuito, in concorso con la condotta imprudente della vittima, a determinare in misura prevalente la produzione dell'evento infortunistico”.
Secondo la Corte di Cassazione, inoltre, correttamente è stato applicato nella circostanza il principio generale secondo il quale “la colpa altrui non elide la propria”. “È evidente, infatti” prosegue ancora la Sez. IV, “che la prospettazione di una causa di esenzione da colpa che si richiami alla condotta imprudente del lavoratore, non rileva allorché chi la invoca versa in re illicita, per non avere negligentemente impedito l'evento lesivo, che è conseguito, nella fattispecie, dall'avere la vittima liberamente operato nel cantiere in condizioni di pericolo, in quanto non era imposto dai dovuti controlli sui lavoratori un modus operandi, rispettoso dell'osservanza delle misure di salvaguardia ed alternativo alla descritta censurata prassi invalsa per i lavori di breve durata”.
La Sez. IV prosegue quindi ponendo in evidenza quella che possiamo ritenere la massima di questa sentenza e cioè che “chi è responsabile della sicurezza del lavoro deve avere sensibilità tale da rendersi interprete, in via di prevedibilità, del comportamento altrui. In altri termini, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori non è invocabile, non solo per la illiceità della propria condotta omissiva, ma anche per la mancata attività diretta ad evitare l'evento, imputabile a colpa altrui, quando si è, come nel caso ‘de quo’, nella possibilità in concreto di impedirlo, indipendentemente dalla durata connessa all'esecuzione del lavoro assegnato”.
La Sez IV ha avuto modo quindi di ribadire quello che ormai è da ritenere per le varie e numerose espressioni sull’argomento della Corte di Cassazione un indirizzo consolidato della giurisprudenza e cioè che “la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa. Sussistendo questa ipotesi, è affermato dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte il principio giuridico che, in caso di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia esimente può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato concausa all'evento, quando questo sia da ricondursi anche e, soprattutto, alla mancanza od insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento”.
È alla stregua appunto di tale principio che la Corte di Cassazione non ha inteso accogliere le rimostranze difensive dell’imputato “non potendosi l'imprudente condotta della vittima considerarsi imprevedibile e tale da interrompere tout court il rapporto di causalità, essendo questo nella specie riconducibile, comunque, all'omissione, da parte del (datore di lavoro) della condotta doverosa di attivarsi e controllare che le norme antinfortunistiche siano assimilate e puntualmente osservate dai lavoratori, anche quelle che riguardano l'utilizzo nell'ordinaria prassi di lavoro dei dispositivi di protezione individuali, ivi comprese le cinture di sicurezza, essendo idonee, quest'ultime, ad impedire il pericolo di cadute al suolo dall'alto”.
In conclusione quindi ed in altri termini non essendo stato il comportamento del lavoratore estraneo alle mansioni allo stesso affidate e quindi al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro, lo stesso non è stato ritenuto una causa sopravvenuta idonea da sola ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta colposa ascritta all'imputato e l'infortunio mortale.
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