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Le donne e la valutazione dei rischi lavorativi
Nella Factsheet n. 87 del 2009, l’Agenzia Europea per la Salute e Sicurezza di Bilbao, riportando l’esito di un rapporto elaborato sul tema della valutazione dei rischi in relazione alla diversità della forza lavoro, ha sottolineato che “non tutti i lavoratori sono esposti agli stessi rischi: alcuni gruppi specifici di lavoratori sono maggiormente esposti ai rischi (o sono soggetti a particolari condizioni).
Quando parliamo di lavoratori maggiormente esposti ai rischi ci riferiamo a lavoratori soggetti a rischi specifici in relazione a fattori quali l’età, le origini, il sesso, le condizioni fisiche o la posizione nell’impresa. Tali persone possono essere più vulnerabili a certi rischi e avere esigenze specifiche sul lavoro.
La legislazione in materia di salute e di sicurezza impone ai datori di lavoro di effettuare valutazioni dei rischi e sottolinea la necessità di «adeguare il lavoro all’uomo», l’obbligo del datore di lavoro di «disporre di una valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, inclusi i rischi riguardanti i gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari» e che «i gruppi a rischio particolarmente esposti devono essere protetti dagli specifici pericoli che li riguardano».
La diversità e la gestione della diversità nel luogo di lavoro sono oggi questioni importanti nell’ambito della sicurezza e della salute sul lavoro.
Raramente, tuttavia, la diversità è stata studiata dal punto di vista della valutazione dei rischi.
Sono ancora rari gli strumenti pratici di valutazione dei rischi che tengono conto dei rischi specifici affrontati, per esempio, da persone disabili, lavoratori immigrati, lavoratori anziani, donne e lavoratori temporanei.
È auspicabile che ulteriori ricerche e sviluppi conducano in futuro a una maggiore disponibilità di materiali di orientamento”.
Riguardo allo scopo del rapporto elaborato dall’Agenzia Europea, questa sottolinea la necessità di svolgere “valutazioni dei rischi onnicomprensive, per tenere conto della diversità della forza lavoro al momento di valutare e gestire i rischi”.
La prima parte del rapporto presenta le principali questioni riguardanti la sicurezza e la salute sul lavoro di sei categorie di lavoratori considerate a maggior rischio: i lavoratori immigrati, i lavoratori disabili, i lavoratori giovani e anziani, le donne (questioni legate alla parità tra i sessi) e i lavoratori temporanei.
L’Agenzia elenca quindi i “punti chiave per una valutazione dei rischi «attenta all’inclusione»: - Attribuire la debita importanza alle questioni della diversità e assumere un impegno concreto al riguardo.
- Evitare presupposizioni sui pericoli e sui soggetti a rischio.
- Considerare la diversità della forza lavoro una ricchezza (e non un problema).
- Prendere in considerazione l’intera forza lavoro, compresi addetti alle pulizie, receptionist, addetti alla manutenzione, lavoratori di agenzie interinali, lavoratori part-time ecc..
- Adeguare il lavoro e le misure preventive ai lavoratori. quello dell’adeguamento del lavoro ai lavoratori è un principio chiave del diritto dell’UE.
- Tenere conto delle necessità di tutte le categorie che compongono la forza lavoro nella fase di progettazione e di pianificazione, invece di trovarsi a dover introdurre adeguamenti in caso di assunzione di lavoratori disabili, anziani o immigrati.
- Integrare gli aspetti legati alla sicurezza e alla salute sul lavoro in tutte le azioni a favore della parità nel luogo di lavoro, compresi i piani per la parità e le politiche contro la discriminazione.
- Fornire agli incaricati della valutazione dei rischi, ai dirigenti e ai supervisori, ai rappresentanti per la sicurezza ecc. una preparazione e le informazioni pertinenti sulle questioni legate alla diversità in relazione ai rischi in termini di salute e di sicurezza.
- Fornire a tutti i lavoratori una formazione adeguata sulla sicurezza e la salute sul lavoro; elaborare materiali di formazione su misura in base alle necessità e alle specificità dei lavoratori.
- Una valutazione dei rischi improntata all’inclusione deve adottare un metodo partecipato, che coinvolga i lavoratori interessati e sia basato su un esame della situazione effettiva di lavoro.
- Fra gli esempi di buone pratiche in termini di inclusione nell’ambito della valutazione dei rischi si annoverano varie misure preventive (adeguamento del lavoro all’individuo, adeguamento al progresso tecnico, fornitura di appropriate istruzioni ai lavoratori, fornitura di una formazione specifica ecc.). L’adozione di tali misure interconnesse è un fattore essenziale per il successo.
- Una valutazione dei rischi per le categorie di lavoratori maggiormente esposti, che elimini i rischi e affronti i pericoli all’origine, va a vantaggio di tutti i lavoratori indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla nazionalità e dalle caratteristiche fisiche. Ecco alcuni esempi di misure che potrebbero avvantaggiare l’intera forza lavoro:
- adeguamenti dei locali o delle postazioni di lavoro (per accogliere lavoratori disabili, anziani ecc.), per esempio installando rampe di accesso, ascensori, interruttori di illuminazione e scalini bordati di una vernice chiara ecc.;
- adozione di strumenti più ergonomici (adattabili alle specificità di ciascun lavoratore indipendentemente dalla statura e dalle caratteristiche). In tal modo il lavoro o il compito possono essere svolti da una gamma più ampia di lavoratori ( donne, lavoratori anziani, persone di bassa statura ecc.), per esempio rendendo necessaria una minore forza fisica;
- fornitura di tutte le informazioni in materia di salute e di sicurezza in formati accessibili (allo scopo di renderle più comprensibili ai lavoratori immigrati);
- elaborazione di metodi e strategie per mantenere in attività in particolare i turnisti anziani; tali strategie avvantaggeranno tutti i lavoratori (indipendentemente dall’età) e renderanno il lavoro a turni più accettabile per i nuovi dipendenti.
- Ogniqualvolta un’impresa o un’organizzazione apporta modifiche all’ambiente fisico del luogo di lavoro, o acquista nuove attrezzature, è importante fare in modo che tali modifiche o acquisti siano adatti a tutte le categorie che compongono la forza lavoro.
- Se l’impresa o l’organizzazione non è in grado di trattare i rischi di un gruppo specifico di lavoratori, è importante richiedere la consulenza di esperti, che può essere fornita da servizi e autorità per la sicurezza e la salute sul lavoro, professionisti nel campo della salute e della sicurezza ed ergonomisti, organizzazioni di disabili o immigrati ecc.
- Gli esempi di buone pratiche in termini di inclusione nell’ambito della valutazione dei rischi dimostrano che, affinché un’azione preventiva sia efficace, è essenziale coinvolgere tutte le parti direttamente interessate: lavoratori e rappresentanti dei lavoratori, comitati aziendali, dirigenza, esperti di sicurezza e salute sul lavoro, contraenti o subappaltatori ecc.”.
In termini di diritto interno, il decreto legislativo n. 81/08 all’art. 28 c. 1 prevede che “la valutazione [dei rischi, n.d.r.] di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a), anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro.”
L’art. 40 c. 1 del medesimo decreto (Rapporti del medico competente con il Servizio sanitario nazionale), poi, la cui efficacia è al momento sospesa, prevede che “entro il primo trimestre dell’anno successivo all’anno di riferimento il medico competente trasmette, esclusivamente per via telematica, ai servizi competenti per territorio le informazioni, elaborate evidenziando le differenze di genere, relative ai dati aggregati sanitari e di rischio dei lavoratori, sottoposti a sorveglianza sanitaria secondo il modello in allegato 3B.”
Tali disposizioni hanno dato applicazione all’articolo 1 della legge n. 123/2007 (legge delega per il testo unico), che prevedeva che i decreti delegati avrebbero dovuto tenere conto, oltre che della condizione dei lavoratori immigrati, anche delle differenze di genere e della condizione delle lavoratrici.
Il D.Lgs. 81/08, dunque, va nella direzione di una prevenzione gender based ed inaugura un approccio alla salute e sicurezza orientato al genere.
Da anni la Strategia comunitaria per la salute e sicurezza sul lavoro pone tra gli obiettivi principali che gli Stati membri devono perseguire quello dell’“integrazione della dimensione di genere nella valutazione dei rischi, nell’adozione di misure di prevenzione e dei dispositivi di sicurezza.”
Infatti, “il Consiglio Europeo di Lisbona ha sottolineato l’esigenza di un’analisi profonda che individui i problemi cui la strategia «salute e sicurezza sul lavoro » dovrà dare delle risposte.
L’analisi dell’andamento demografico, con particolare riguardo alla popolazione attiva, è propedeutica ad interventi mirati che tengano conto delle esigenze specifiche delle varie fasce d’età e della dimensione di genere in ambito lavorativo. L’obiettivo che l’UE si è posta di raggiungere il 60% del tasso di occupazione femminile entro il 2010 comporta una maggiore attenzione alla specificità dei sessi, che deve essere meglio integrata nella legislazione, con particolare riferimento a discipline quali l’ergonomia e l’organizzazione del lavoro.”
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L’Agenzia Europea per la sicurezza e la salute sul lavoro di Bilbao ha emanato nel 2003 due importanti FACTS (n. 42 e 43) dedicate rispettivamente alle “problematiche legate al genere nel campo della sicurezza e salute sul lavoro” e alla necessità di “inserire le problematiche legate al genere nella valutazione dei rischi.”
Nel primo dei due documenti si legge che “le differenze di genere nelle condizioni di lavoro si ripercuotono notevolmente sulle differenze di genere nelle conseguenze per la salute legate al lavoro. La ricerca e gli interventi devono tenere conto del tipo effettivo di lavoro che fanno gli uomini e le donne e delle differenze nelle condizioni di esposizione e di lavoro.
- Possiamo migliorare la ricerca ed il monitoraggio inserendo sistematicamente la dimensione del genere nella raccolta dei dati, tenendo conto delle ore effettive di lavoro (le donne generalmente hanno orari di lavoro più corti degli uomini) e basando la valutazione dell’esposizione sul lavoro realmente svolto.
I metodi epidemiologici devono essere valutati per cercare eventuali discriminazioni di genere.
Gli indicatori dei sistemi di monitoraggio, quali le relazioni e le indagini nazionali sugli infortuni, devono comprendere tutti i rischi professionali per le donne.
- I rischi legati al lavoro per la sicurezza e la salute delle donne sono stati sottovalutati e trascurati rispetto a quelli per gli uomini, sia nella ricerca che nella prevenzione.
Questo problema deve essere affrontato nelle attività di ricerca, di sensibilizzazione e di prevenzione.
- Adottando una strategia indipendente dal genere per la politica e la legislazione si è dedicata meno attenzione e si sono stanziate meno risorse ai rischi legati al lavoro per le donne e alla loro prevenzione. Le direttive europee sulla sicurezza e la salute non riguardano i lavoratori domestici (prevalentemente donne). Le donne che lavorano non ufficialmente, ad esempio mogli o compagne di uomini in aziende agricole a conduzione familiare, spesso non sono considerate dalle leggi. È necessario svolgere, tenendo conto dell’impatto del genere, un esame delle direttive SSL attuali e future, della definizione di norme e degli accordi di compensazione.
- Benché sia necessario valutare l’impatto del genere e sia opportuno colmare le lacune nella conoscenza, sarebbe possibile, con le attuali conoscenze in materia di prevenzione e integrazione del genere nella SSL, applicare le direttive esistenti in modo più sensibile al genere.
- Il successo di questi interventi che tengono conto del genere richiede la partecipazione di tutti i lavoratori interessati e l’esame delle situazioni di lavoro effettive[…]”.
Nella seconda factsheet, invece, viene proposto il seguente “modello per rendere la valutazione dei rischi più «sensibile al genere»”.
In particolare, si afferma che “la valutazione dei rischi deve tenere conto delle problematiche, delle differenze e delle disuguaglianze legate al genere. Il lavoro, la sua organizzazione e le attrezzature per svolgerlo devono essere concepiti per adattarsi alle persone e non viceversa.
Questo principio si trova nella legislazione dell’UE. La legislazione richiede che i datori di lavoro procedano ad una gestione dei rischi basata sulla valutazione dei rischi, il che può essere suddiviso in cinque fasi:
1. Individuazione dei pericoli;
2. Valutazione dei rischi;
3. Attuazione delle soluzioni;
4. Controllo;
5. Riesame;
[…]
Punti fondamentali per una valutazione dei rischi «sensibile al genere»:
- Impegnarsi positivamente e considerare seriamente le problematiche legate al genere;
- Esaminare la situazione di lavoro reale;
- Coinvolgere tutti i lavoratori, uomini e donne, a tutti i livelli;
- Evitare di stabilire a priori quali sono i pericoli e quali sono le persone a rischio”.
A tutto ciò va aggiunto, inoltre, che le evidenze emergenti dagli studi condotti negli ultimi anni in materia segnalano in maniera sempre più pressante l’esigenza che i rischi lavorativi vengano valutati con riferimento anche alle differenze di genere e la necessità di una programmazione sanitaria orientata in tal senso.
Con particolare riferimento alla materia dell’igiene del lavoro, è stato osservato [1] : “Chi lavora è maschio”.
La medicina del lavoro da sempre ha preso in considerazione esclusivamente le caratteristiche bio-psichiche e socio-economiche del lavoratore maschio. Della donna si parla solo nel periodo della gravidanza in rapporto esclusivamente ai rischi del nascituro.
Se le statistiche generali e quindi generiche riferiscono che nell’uomo le malattie professionali e gli infortuni sono più frequenti, e ciò appare evidente se confrontato con il tasso di occupazione femminile che è molto più basso di quello maschile; le statistiche di settori, in cui la presenza delle donne è maggiore (settore alimentare, alberghiero, della ristorazione, sanitario), mostrano un capovolgimento delle statistiche tradizionali con un rischio di malattie professionali e di infortuni per così dire “a vantaggio” delle donne. […]. Vi sono poi specifiche malattie professionali che riguardano le donne ed il loro tipo di impiego prevalente, che non sono tenute in dovuta considerazione dalla medicina […]”.
La medicina non presta sufficiente attenzione neanche al campo delle differenze uomo-donna che si riferiscono alla diversa risposta biologica ai comuni rischi lavorativi quali: il lavoro fisico/pesante, il lavoro a turno, la tossicocinetica (le differenze di assorbimento e ritenzione, metabolismo ed escrezione di sostanze nocive presenti nell’ambiente di lavoro).
In conclusione la presenza di bias , legati alla mancata lettura delle differenze di genere, è molto forte nella medicina del lavoro perché l’attività lavorativa è misurata principalmente se non esclusivamente sull’uomo ma anche perché essa è scarsamente valutata nella eziologia di molte patologie femminili.”
Ed ancora, coloro [2]che hanno studiato ed approfondito il fenomeno delle differenze di genere hanno sottolineato l’esistenza di “due inappropriati criteri di approccio ai problemi di salute delle donne:
A. la mancanza di attenzione alla differenza sessuale nella complessiva valutazione […] (non limitato quindi alla sfera riproduttiva).
La maggioranza dei contributi ha segnalato, ciascuno per il suo settore, come l’uomo e la biologia maschile siano stati presi come unico riferimento negli studi clinici.
Ciò costituisce evidentemente una procedura metodologica inappropriata che nasconde la specificità della biologia femminile presente in ogni osservazione clinica, e che inficia la prassi sanitaria, la validità di molte ricerche, l’utilità di molte statistiche e che arreca infine un gravissimo danno alla salute della donna.
B. La disparità di trattamento nell’osservazione delle patologie maschili e femminili. Esistono molti dati sulla emergenza sanitaria “al femminile” […], ma essi sono sottovalutati, non vengono presi in adeguata considerazione dalla struttura sanitaria e dalla ricerca scientifica, e non vengono trattati come emergenze.
Il senso di tutto ciò, si è visto, si riferisce ad una percezione del fenomeno patologico nelle donne che, associato alla eziopatogenesi di tipo prevalentemente biologico, viene considerato un “evento naturale” e perciò stesso poco modificabile e poco rispondente ai presidi della prevenzione primaria.
La disparità di trattamento è quindi ampiamente evidente nel dare scarsa o nulla rilevanza scientifica, nell’analisi delle condizioni di salute della popolazione femminile, ai fattori di rischio socio-ambientali, lavorativi e psico-sociali, fattori determinanti per definire strategie e obiettivi della prevenzione.”
Con riferimento poi al fenomeno dello stress sui luoghi di lavoro, viene in ultimo sottolineato che “uno dei fattori di rischio psico-sociale, che maggiormente colpisce le donne, è ampiamente trascurato dalle ricerche e dagli interventi di prevenzione: si tratta dello stress che le donne subiscono più degli uomini per via del doppio carico di lavoro (familiare ed extra-familiare).
Le ricerche sullo stress hanno finora dato poco peso alla variabile di genere.
Ciò è conseguenza di un circolo vizioso: gli studi sullo stress sono tradizionalmente collegati all’evento considerato più significativo della vita quotidiana e ritenuto di maggior peso: il lavoro produttivo. La minore presenza delle donne in quest’area o comunque una presenza di minore peso e qualità (lavori di minor valore e responsabilità decisionale, lavori in prevalenza subalterni), ha fatto sì che le donne “naturalmente” non entrassero sulla scena di questo settore della ricerca, o la loro presenza, se ci entravano, fosse poco significativa.”
Di Anna Guardavilla
[1] Irene Figà Talamanca, I rischi delle attività lavorative sono misurati esclusivamente sul lavoratore maschio, in “Una salute a misura di donna”, Atti del gruppo di lavoro “Medicina Donna Salute”, 2001
[2] Le conclusioni riportate sono gli esiti di una ricerca condotta dal gruppo di lavoro “Medicina Donna Salute” composto da Terri Ballard, Giuseppina Boidi, Adriana Ceci, Laura Corradi, Irene Figà Talamanca, Daria Minucci, Maria Grazia Modena, Nadia Pallotta, Patrizia Romito, Paola Vinay, raccolte nel Volume Una salute a misura di donna (Capitolo “Conclusioni”).
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