Per utilizzare questa funzionalità di condivisione sui social network è necessario accettare i cookie della categoria 'Marketing'
Leggi la prima parte: “Sorveglianza sanitaria: le responsabilita' del datore di lavoro”.
Rassegna di giurisprudenza di legittimità 2004-2009 sulle responsabilità del medico competente e del datore di lavoro in materia di sorveglianza sanitaria
Selezione di importanti sentenze emanate in attuazione del D.Lgs. 626/94, compatibili - in virtù del principio di continuità normativa - con il D.Lgs. 81/08
A cura di Anna Guardavilla
La sentenza ha ad oggetto il caso di un medico competente condannato per aver omesso di effettuare gli accertamenti sanitari preventivi e periodici su due dipendenti esposti ad agenti chimici in una ditta metalmeccanica, in violazione degli artt. 17, c. 1, lett. b) e 92, c. 1 lett. a) del D.Lgs. 626/94 (ora art. 25 c. 1 lett. b) in comb. disp. art. 58 c. 1 lett. b) D.Lgs. 81/08).
La Cassazione sancisce il principio dell’applicabilità del Titolo VII-bis del D.Lgs. 626/94 (protezione da agenti chimici, ora titolo IX del D.Lgs. 81/08) - titolo che prescrive con una norma specifica l’obbligo della sorveglianza sanitaria - in tutti i casi in cui vi sia esposizione ad agenti chimici e non limitatamente al settore chimico.
Il fatto
Un medico competente è stato chiamato a rispondere del reato di lesioni personali colpose di cui agli artt. 590, commi 1, 2 e 3, e 583, comma 1, n. 1, del codice penale per avere - in qualità di incaricato della sorveglianza sanitaria sui lavoratori di una ditta X dal settembre 1996 al gennaio 1997 - cagionato una lesione personale consistita in una malattia durata oltre 40 giorni (dermatite allergica da contatto localizzata al volto e alle mani) ad una lavoratrice dipendente di tale ditta, addetta in quel periodo al montaggio di proiettori di veicoli industriali e, perciò, esposta nell’ambiente di lavoro a resine epossidiche, per colpa generica (negligenza, imprudenza, imperizia) e specifica (inosservanza delle norme sull’igiene del lavoro e, segnatamente, degli artt. 3, comma 1, lettere l), m), 16, 17 D.Lgs. 626/94, ora corrispondenti agli artt. 15 c. 1 lett. l), m) e artt. 41 e 25 D.Lgs. 81/08).
In particolare l’imputato aveva omesso di sottoporre a visita medica periodica la lavoratrice benché la stessa fosse esposta a rischio lavorativo identificato nel documento di valutazione dei rischi e avesse segnalato la presenza di disturbi allergici; di sottoporla ad accertamenti specifici (quali tests allergologici); di segnalare al datore di lavoro la necessità di allontanare la lavoratrice dall’esposizione a resine epossidiche, con la conseguenza che la lavoratrice aveva subito la menzionata lesione personale.
L’imputato, che era già dipendente di tale ditta e già assolveva alla funzione di medico competente in altri stabilimenti, nel periodo che va dal settembre 1996 al gennaio 1997 è stato medico competente preposto alla sorveglianza sanitaria sui lavoratori presso tale ditta X in sostituzione temporanea del medico titolare, assente per malattia.
La lavoratrice era stata addetta dal settembre ‘96 al montaggio di proiettori, lavorazione che prevede l’utilizzo di un collante a base di resine epossidiche, attraverso una pistola a spruzzo. La sua postazione di lavoro era denominata modulo U64; su tale postazione mancava un impianto di aspirazione dei vapori e fumi. Per eseguire tale lavoro era stata inizialmente dotata di guanti di cotone lunghi fino al polso, da cambiare ogni giorno, ma non di occhiali protettivi. Secondo le schede di valutazione dei rischi predisposti, il contatto con colle epossidiche può dar luogo a dermatiti; uno, due mesi dopo il settembre ‘96 l’operaia, secondo quanto dalla medesima dichiarato, cominciava ad accusare disturbi quali bruciore agli occhi, alla bocca, al naso, al polso; il giorno 14 novembre 1996 ella si reca in sala medica e, in assenza del medico competente, parla con l’infermiera che annota i sintomi riferiti dalla lavoratrice sul diario di sala medica (prurito viso, occhi, palpebre, avambraccia - U64. Terapia Polaramin, cioè un antistaminico locale); l’infermiera non riferisce nulla all’imputato.
I disturbi dell’operaia continuano tanto che il 28 febbraio 1997, quando l’imputato è stato nel frattempo sostituito dal medico titolare, la lavoratrice si ripresenta in sala medica, lamentando prurito al viso e le viene di nuovo indicata la terapia con Polaramin; l’operaia si rivolge allora al proprio medico curante di base, su indicazione di costui viene sottoposta il 3 marzo 1997 a tests allergologici che risultano positivi; riferisce in fabbrica tale situazione e viene variata la sua postazione di lavoro; i disturbi a questo punto si attenuano fino a scomparire totalmente tanto che il 30 maggio 1997 il Consulente Tecnico del P.M. la visita e attesta la completa guarigione.
La decisione del giudice di primo grado (Tribunale)
Il giudice di primo grado assolve l’imputato per totale assenza di colpa rilevando, in estrema sintesi, che egli, in quanto medico supplente, non aveva obbligo di visita periodica della lavoratrice né doveva segnalare al datore di lavoro i sintomi denunciati dalla medesima all’infermiera il 14.11.96 sia perchè non vi era stato un contatto diretto tra il medico e la donna, sia perchè la stessa aveva indicato un sintomo, il prurito, del tutto generico, laddove la dermatite da contatto dà manifestazioni oggettive come eritema, edema, presenza di vesciche; inoltre, la lavoratrice, nel periodo in cui era stato presente l’imputato, non era più tornata in sala medica.
La decisione del giudice di secondo grado (Corte d’Appello)
Secondo la sentenza di appello l’imputato deve invece ritenersi responsabile del reato ascritto; la Corte di appello prende le mosse dalla necessità di riconoscere alla normativa dettata per la salute in fabbrica la sua natura preventiva, quella cioè di dettare obblighi finalizzati a evitare l’insorgenza di malattie e non solo quella di adottare misure per attenuare o eliminare malattie già insorte; ricorda che la manualistica specializzata raccolta in primo grado dimostra la specificità del prurito quale sintomo d’insorgenza di una dermatite allergica da contatto.
Vi si legge infatti non solo che la sintomatologia elettiva di tale malattia consiste per lo più in prurito, ma che esiste un periodo di incubazione più meno lungo che divide tale sensibilizzazione dalla comparsa di un quadro franco obiettivabile e che le zone tipiche interessate sono il dorso delle mani, le superfici flessorie degli avambracci, il volto, le palme delle mani e il dorso dei piedi.
La Corte d’Appello ritiene, inoltre, che l’imputato al momento della lettura del diario medico doveva dunque avere consapevolezza dell’esistenza di un disturbo che si caratterizzava come sintomo specifico di una malattia e dunque era in colpa per non aver approfondito con una visita di controllo la situazione onde poter valutare compiutamente le eventuali contromisure da adottare.
Essa valuta, inoltre, che non può giovare all’imputato la mancanza di un contatto diretto della donna col medico, ma solo con un’infermiera: l’assenza del medico competente nel momento in cui la lavoratrice chiedeva la visita medica è fatto consequenziale a decisioni aziendali e, semmai, proprio il non aver constatato di persona il quadro clinico della lavoratrice sofferente avrebbe reso ancor più opportuna e doverosa la decisione di sottoporla a verifica medica. Quand’anche infatti non si volesse ritenere nascente dalla segnalazione del disturbo l’obbligo di visita ex art. 16 del D.Lgs. 626/94 (ora art. 41 D.Lgs. 81/08) si ritroverebbe pur sempre nella lett. i) del primo comma dell’art. 17 del D.Lgs. 626/94 (ora art. 25 in comb. disp. art. 41 c. 2 lett. c) - che fissa i doveri del medico competente - un generale obbligo in capo a tale soggetto di effettuare una visita medica qualora sia il lavoratore a richiederla e vi sia una correlazione, come in questo caso, fra tale richiesta e i rischi professionali: il comportamento tenuto dalla lavoratrice consistito nel recarsi nella sala medica (ove il medico titolare aveva obbligo contrattuale di essere presente e comunque lei si aspettava di trovare) non può infatti che essere interpretato se non come richiesta di diagnosi e terapia rivolta a soggetto competente, cioè ad un medico.
La decisione della Corte di Cassazione
Secondo la Corte il momento consumativo del reato contestato al medico competente è da far risalire al periodo di tempo intercorrente tra il momento in cui egli ha posto in essere la condotta colposa contestatagli, cioè quando la lavoratrice si recò in sala medica per essere visitata, ed il momento della cessazione dalla carica di medico competente.
La circostanza che la malattia della lavoratrice sia insorta, secondo la valutazione dei consulenti, in epoca precedente a quella in cui il medico iniziò la sostituzione, non ha alcuna rilevanza in ordine al reato al medesimo contestato, potendo evidentemente tale reato sussistere solo dal momento in cui quegli ha assunto la posizione di garanzia ed avrebbe quindi dovuto e potuto porre in essere quei comportamenti, invece omessi, a tutela della salute della lavoratrice.
Peraltro nella contestazione mossa all’imputato di aver cagionato la anzidetta malattia è compresa, tale essendo stata specificata la colpa del ricorrente nello stesso capo di imputazione, l’addebito della mancata diagnosi della malattia stessa.
La sentenza(formato PDF, 50 kB).
Il commento alla sentenza
La ricostruzione del fatto.
La situazione giuridica proposta dal caso in oggetto può essere così ricostruita:
Il primo imputato è il datore di lavoro O., il quale ha omesso di erogare al lavoratore A. “una sufficiente ed adeguata formazione in materia di sicurezza e salute relativa al proprio posto di lavoro e alla propria mansione” ai sensi dell’art. 22 del D.Lgs. 626/94.
Egli si difende deducendo di non poter essere qualificato datore di lavoro sia per l’assenza di documentazione e/o di procura rilasciata dal legale rappresentante della società sia per essere rimasto estraneo al trasferimento del lavoratore e alle contestazioni disciplinari allo stesso indirizzate.
Il secondo imputato è il medico competente, condannato per non avere richiesto al datore di lavoro una visita medica specialistica per il lavoratore A., affetto da psicosi dissociativa, al fine di salvaguardare l’integrità psicofisica del suddetto.
Egli si difende deducendo che “il medico ex art. 17 del D.Lgs. 626/94 non ha l’obbligo di disporre accertamenti specialistici anche in presenza di diagnosi di medici esterni, se non ne reputa la necessità; che egli aveva reiteratamente visitato l’A. e l’aveva ritenuto idoneo alla specifica attività cui era destinato essendo in suo potere discrezionale accedere o meno alla richiesta di visita specialistica avanzata dal lavoratore così come era nella sua competenza professionale e funzionale valutare se la patologia psichiatrica lamentata incidesse sulla sicurezza del lavoro cui doveva essere addetto l’A.”.
Gli imputati sono stati condannati in primo grado al pagamento di un’ammenda che - giova ricordarlo - è la sanzione penale di tipo pecuniario prevista per la commissione di un reato contravvenzionale.
La sentenza in oggetto non consegue ad un infortunio sul lavoro o ad una malattia professionale, bensì è emanata in applicazione del decreto legislativo 19 dicembre 1994 n. 758, che prevede un meccanismo in forza del quale, a seguito di prescrizione da parte dell’organo di vigilanza, l’azione penale può essere sospesa in attesa che il datore di lavoro ottemperi, e poi estinta, previa regolarizzazione, con il pagamento dell’ammenda.
In caso di mancata regolarizzazione il procedimento penale, apertosi al momento della comunicazione al pubblico ministero della notizia di reato da parte dell’organo di vigilanza, prosegue il suo iter regolare.
Nel caso di specie, specifiche prescrizioni erano state emesse da parte degli ispettori del lavoro nei confronti dell’azienda a fronte della violazione degli articoli 17 e 22 del D.Lgs. 626/94, con l’assegnazione di un preciso termine, rimasto inosservato, per la regolarizzazione[1].
Gli imputati ricorrono per Cassazione.
Il principio giuridico
I profili di maggior interesse su cui la Suprema Corte si pronuncia nella sentenza in oggetto sono rappresentati da un lato dalla qualificazione della figura di datore di lavoro e dall’altro dalla condotta omissiva del medico competente.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la Cassazione torna sulla nozione di “datore di lavoro” precisando che “per le violazioni delle norme di sicurezza e d’igiene stabilite nei decreti su citati [decreti prevenzionali e D.Lgs. 626/94, n.d.r.] si deve fare riferimento alla nozione di datore di lavoro definita dall’art. 2 lett. b) del d.lgs. 626/94” e che “datore di lavoro è chi ha la responsabilità dell’impresa o dell’unità produttiva, cui spetta il controllo su tutta l’organizzazione amministrativa e gestionale dell’ente cui è egli preposto; il che comporta anche l’obbligo di assicurare ai lavoratori un’adeguata formazione in materia di sicurezza del lavoro”.
Da qui la Corte opera una interessante distinzione: “Quindi, il direttore di uno stabilimento, specie se non abbia preposto alla direzione del lavori altra persona, ha sempre l’obbligo, quale soggetto apicale dell’unità produttiva (essendo tale, nella specie, lo stabilimento dell’A. in Nola) nell’ambito delle proprie competenze e attribuzioni, di accertarsi che il lavoro degli operai si svolga in condizioni di sicurezza. Invece, solo nel caso in cui l’impresa abbia carattere di società e non sia possibile individuare gli organi tenuti a garantire la sicurezza del lavoro, la relativa responsabilità grava anche penalmente sui legali rappresentanti della società, perchè costoro, ancorché non svolgono mansioni tecniche, sono pur sempre preposti alla gestione della società e si identificano quindi con i soggetti primari destinatari delle norme antinfortunistiche. […]
Nel caso in esame la responsabilità è stata, quindi, correttamente affermata sia per il ruolo rivestito dall’imputato, direttore generale e, quindi, organo apicale dell’ente, nonché datore di lavoro ed unico titolare del potere di spesa, sia per l’omesso rilascio di valida delega nelle materie in questione ad altri dirigenti.”
Per quanto riguarda invece la posizione del medico competente, la Suprema Corte rileva che in presenza di certificazioni provenienti da strutture sanitarie pubbliche, egli avrebbe dovuto prescrivere una visita specialistica, donde un’ingiustificata condotta omissiva considerato che la richiesta del lavoratore era correlata al rischio professionale e che lo stato ansioso era determinato da una presunta sua inadeguatezza, giudicata fondata dagli ispettori del lavoro, rispetto alle mansioni assegnategli con possibile danno per se stesso, per gli altri e per le strutture aziendali.
La terza parte dell’approfondimento verrà pubblicata la prossima settimana. Per gli abbonati è disponibile l’intero documento in banca dati:
Anna Guardavilla - Approfondimento - Rassegna di giurisprudenza di legittimità 2004-2009 sulle responsabilità del medico competente e del datore di lavoro in materia di sorveglianza sanitaria.
Per visualizzare questo banner informativo è necessario accettare i cookie della categoria 'Marketing'Sorveglianza sanitaria: le responsabilita' del Medico Competente
Leggi la prima parte: “Sorveglianza sanitaria: le responsabilita' del datore di lavoro”.
Rassegna di giurisprudenza di legittimità 2004-2009 sulle responsabilità del medico competente e del datore di lavoro in materia di sorveglianza sanitaria
Selezione di importanti sentenze emanate in attuazione del D.Lgs. 626/94, compatibili - in virtù del principio di continuità normativa - con il D.Lgs. 81/08
A cura di Anna Guardavilla
Cassazione Penale, Sezione Terza, 13 maggio 2005 n. 17838 - Condanna a carico del medico competente - Norme di riferimento: art. 17 c. 1 lett. b) in comb. disp. art. 92 c. 1 lett. a) D.Lgs. 626/94 – ora art. 25 c. 1 lett. b) in comb. disp. art. 58 c. 1 lett. b) D.Lgs. 81/08 |
La Cassazione sancisce il principio dell’applicabilità del Titolo VII-bis del D.Lgs. 626/94 (protezione da agenti chimici, ora titolo IX del D.Lgs. 81/08) - titolo che prescrive con una norma specifica l’obbligo della sorveglianza sanitaria - in tutti i casi in cui vi sia esposizione ad agenti chimici e non limitatamente al settore chimico.
Cassazione Penale, 28 giugno 2005 n. 24290 - Condanna a carico del medico competente - Norme di riferimento: art. 590 c.p. (lesioni personali colpose) in comb. disp. art. 583 c.p. (gravità delle lesioni: lesioni gravi – procedibilità d’ufficio) e artt. 16 e 17 D.Lgs. 626/94 – ora artt. 41 e 25 D.Lgs. 81/08 |
Il fatto
Un medico competente è stato chiamato a rispondere del reato di lesioni personali colpose di cui agli artt. 590, commi 1, 2 e 3, e 583, comma 1, n. 1, del codice penale per avere - in qualità di incaricato della sorveglianza sanitaria sui lavoratori di una ditta X dal settembre 1996 al gennaio 1997 - cagionato una lesione personale consistita in una malattia durata oltre 40 giorni (dermatite allergica da contatto localizzata al volto e alle mani) ad una lavoratrice dipendente di tale ditta, addetta in quel periodo al montaggio di proiettori di veicoli industriali e, perciò, esposta nell’ambiente di lavoro a resine epossidiche, per colpa generica (negligenza, imprudenza, imperizia) e specifica (inosservanza delle norme sull’igiene del lavoro e, segnatamente, degli artt. 3, comma 1, lettere l), m), 16, 17 D.Lgs. 626/94, ora corrispondenti agli artt. 15 c. 1 lett. l), m) e artt. 41 e 25 D.Lgs. 81/08).
In particolare l’imputato aveva omesso di sottoporre a visita medica periodica la lavoratrice benché la stessa fosse esposta a rischio lavorativo identificato nel documento di valutazione dei rischi e avesse segnalato la presenza di disturbi allergici; di sottoporla ad accertamenti specifici (quali tests allergologici); di segnalare al datore di lavoro la necessità di allontanare la lavoratrice dall’esposizione a resine epossidiche, con la conseguenza che la lavoratrice aveva subito la menzionata lesione personale.
L’imputato, che era già dipendente di tale ditta e già assolveva alla funzione di medico competente in altri stabilimenti, nel periodo che va dal settembre 1996 al gennaio 1997 è stato medico competente preposto alla sorveglianza sanitaria sui lavoratori presso tale ditta X in sostituzione temporanea del medico titolare, assente per malattia.
La lavoratrice era stata addetta dal settembre ‘96 al montaggio di proiettori, lavorazione che prevede l’utilizzo di un collante a base di resine epossidiche, attraverso una pistola a spruzzo. La sua postazione di lavoro era denominata modulo U64; su tale postazione mancava un impianto di aspirazione dei vapori e fumi. Per eseguire tale lavoro era stata inizialmente dotata di guanti di cotone lunghi fino al polso, da cambiare ogni giorno, ma non di occhiali protettivi. Secondo le schede di valutazione dei rischi predisposti, il contatto con colle epossidiche può dar luogo a dermatiti; uno, due mesi dopo il settembre ‘96 l’operaia, secondo quanto dalla medesima dichiarato, cominciava ad accusare disturbi quali bruciore agli occhi, alla bocca, al naso, al polso; il giorno 14 novembre 1996 ella si reca in sala medica e, in assenza del medico competente, parla con l’infermiera che annota i sintomi riferiti dalla lavoratrice sul diario di sala medica (prurito viso, occhi, palpebre, avambraccia - U64. Terapia Polaramin, cioè un antistaminico locale); l’infermiera non riferisce nulla all’imputato.
I disturbi dell’operaia continuano tanto che il 28 febbraio 1997, quando l’imputato è stato nel frattempo sostituito dal medico titolare, la lavoratrice si ripresenta in sala medica, lamentando prurito al viso e le viene di nuovo indicata la terapia con Polaramin; l’operaia si rivolge allora al proprio medico curante di base, su indicazione di costui viene sottoposta il 3 marzo 1997 a tests allergologici che risultano positivi; riferisce in fabbrica tale situazione e viene variata la sua postazione di lavoro; i disturbi a questo punto si attenuano fino a scomparire totalmente tanto che il 30 maggio 1997 il Consulente Tecnico del P.M. la visita e attesta la completa guarigione.
La decisione del giudice di primo grado (Tribunale)
Il giudice di primo grado assolve l’imputato per totale assenza di colpa rilevando, in estrema sintesi, che egli, in quanto medico supplente, non aveva obbligo di visita periodica della lavoratrice né doveva segnalare al datore di lavoro i sintomi denunciati dalla medesima all’infermiera il 14.11.96 sia perchè non vi era stato un contatto diretto tra il medico e la donna, sia perchè la stessa aveva indicato un sintomo, il prurito, del tutto generico, laddove la dermatite da contatto dà manifestazioni oggettive come eritema, edema, presenza di vesciche; inoltre, la lavoratrice, nel periodo in cui era stato presente l’imputato, non era più tornata in sala medica.
La decisione del giudice di secondo grado (Corte d’Appello)
Secondo la sentenza di appello l’imputato deve invece ritenersi responsabile del reato ascritto; la Corte di appello prende le mosse dalla necessità di riconoscere alla normativa dettata per la salute in fabbrica la sua natura preventiva, quella cioè di dettare obblighi finalizzati a evitare l’insorgenza di malattie e non solo quella di adottare misure per attenuare o eliminare malattie già insorte; ricorda che la manualistica specializzata raccolta in primo grado dimostra la specificità del prurito quale sintomo d’insorgenza di una dermatite allergica da contatto.
Vi si legge infatti non solo che la sintomatologia elettiva di tale malattia consiste per lo più in prurito, ma che esiste un periodo di incubazione più meno lungo che divide tale sensibilizzazione dalla comparsa di un quadro franco obiettivabile e che le zone tipiche interessate sono il dorso delle mani, le superfici flessorie degli avambracci, il volto, le palme delle mani e il dorso dei piedi.
La Corte d’Appello ritiene, inoltre, che l’imputato al momento della lettura del diario medico doveva dunque avere consapevolezza dell’esistenza di un disturbo che si caratterizzava come sintomo specifico di una malattia e dunque era in colpa per non aver approfondito con una visita di controllo la situazione onde poter valutare compiutamente le eventuali contromisure da adottare.
Essa valuta, inoltre, che non può giovare all’imputato la mancanza di un contatto diretto della donna col medico, ma solo con un’infermiera: l’assenza del medico competente nel momento in cui la lavoratrice chiedeva la visita medica è fatto consequenziale a decisioni aziendali e, semmai, proprio il non aver constatato di persona il quadro clinico della lavoratrice sofferente avrebbe reso ancor più opportuna e doverosa la decisione di sottoporla a verifica medica. Quand’anche infatti non si volesse ritenere nascente dalla segnalazione del disturbo l’obbligo di visita ex art. 16 del D.Lgs. 626/94 (ora art. 41 D.Lgs. 81/08) si ritroverebbe pur sempre nella lett. i) del primo comma dell’art. 17 del D.Lgs. 626/94 (ora art. 25 in comb. disp. art. 41 c. 2 lett. c) - che fissa i doveri del medico competente - un generale obbligo in capo a tale soggetto di effettuare una visita medica qualora sia il lavoratore a richiederla e vi sia una correlazione, come in questo caso, fra tale richiesta e i rischi professionali: il comportamento tenuto dalla lavoratrice consistito nel recarsi nella sala medica (ove il medico titolare aveva obbligo contrattuale di essere presente e comunque lei si aspettava di trovare) non può infatti che essere interpretato se non come richiesta di diagnosi e terapia rivolta a soggetto competente, cioè ad un medico.
La decisione della Corte di Cassazione
Secondo la Corte il momento consumativo del reato contestato al medico competente è da far risalire al periodo di tempo intercorrente tra il momento in cui egli ha posto in essere la condotta colposa contestatagli, cioè quando la lavoratrice si recò in sala medica per essere visitata, ed il momento della cessazione dalla carica di medico competente.
La circostanza che la malattia della lavoratrice sia insorta, secondo la valutazione dei consulenti, in epoca precedente a quella in cui il medico iniziò la sostituzione, non ha alcuna rilevanza in ordine al reato al medesimo contestato, potendo evidentemente tale reato sussistere solo dal momento in cui quegli ha assunto la posizione di garanzia ed avrebbe quindi dovuto e potuto porre in essere quei comportamenti, invece omessi, a tutela della salute della lavoratrice.
Peraltro nella contestazione mossa all’imputato di aver cagionato la anzidetta malattia è compresa, tale essendo stata specificata la colpa del ricorrente nello stesso capo di imputazione, l’addebito della mancata diagnosi della malattia stessa.
“Dunque il reato ascritto all’imputato va dichiarato estinto per intervenuta prescrizione. Dalla data del comportamento omissivo, come sopra individuato, è infatti decorso il periodo massimo di sette anni e mezzo entro i quali si verifica la prescrizione […]. Né sussistono, ad avviso del Collegio, le condizioni per un proscioglimento più favorevole all’imputato, rilevando il suo comportamento quanto meno sotto il profilo della violazione dell’art. 17 del decreto legislativo 626/94; ed invero correttamente la Corte di appello ha posto in luce la finalità ampiamente preventiva della normativa sulla salute del lavoratore e dunque la necessità di interpretare la normativa stessa secondo criteri che, pur rispettosi del principio di legalità, tengano conto del fine primario che l’ordinamento ha di mira. L’art. 17 lett. i) stabilisce che il medico competente “fatti i salvi i controlli sanitari di cui alla lett. b) (che rinvia all’art. 16), effettua le visite mediche richieste dal lavoratore qualora tale richiesta sia correlata ai rischi professionali”; ora, nessun dubbio potendo sussistere sulla circostanza che il Dott. D’E. si trovasse, sia pure temporaneamente, data la sua qualità di sostituto del medico titolare dell’incarico, nella qualità di medico competente, si tratta però di stabilire quali tra gli obblighi previsti dagli artt. 16 e 17, potessero a lui fare carico. Ritiene il Collegio che, tenuto conto della brevità dell’incarico, non potesse a lui riferirsi l’obbligo di quegli accertamenti preventivi e periodici dall’art. 16 che, essendo connessi alla organizzazione generale dell’attività medica di fabbrica, debbono essere preventivati e strutturati secondo cadenze e modalità generali, di lunga durata, comunque incompatibili con una sostituzione che si è esaurita nell’arco di pochi mesi; tuttavia, secondo quanto questa Corte ha già avuto modo di osservare nella sentenza del 1.8.2001 n. 33751, Farabi, gli accertamenti periodici di cui appunto all’art. 16 non sono solo quelli per così dire “programmati” e cioè effettuati in date prefissate, con una frequenza prestabilita, ma possono essere effettuati anche in momenti diversi da quelli programmati, quando il medico competente o il datore di lavoro o il lavoratore stesso ne ravvisino la necessità, essendosi ad esempio verificato un qualche accadimento che imponga di verificare lo stato di salute del lavoratore ed effettuare un giudizio formale sulla sua idoneità alla mansione specifica cui è adibito. La disposizione, così interpretata, si avvicina e si raccorda con quella di cui all’art. 17 lett. i) sopra menzionata e giustifica la affermazione di responsabilità del medico; correttamente infatti la Corte di appello ha ritenuto che l’essersi recata la donna nell’ambulatorio, dove la stessa si aspettava di trovare il medico e dove il medico avrebbe dovuto essere, costituisca, indipendentemente dal fatto che la assenza del D’E. possa essere stata del tutto giustificata, un comportamento equivalente alla richiesta di visita, o comunque, data la chiara annotazione dei sintomi indicatori della malattia (sui quali l’accertamento compiuto dal giudice di appello è congruamente motivato e pertanto non censurabile) un comportamento che avrebbe imposto una visita periodica ex art. 16, a fronte del quale il medico aveva l’obbligo di effettuare la visita stessa; di conseguenza il non essersi attivato affinché si rendesse possibile, con opportuna tempestività, la visita della donna nei giorni successivi costituisce colpa del medesimo, come appunto correttamente è stato ritenuto. P.Q.M. La Corte annulla la sentenza impugnata senza rinvio essendo il reato estinto per intervenuta prescrizione. |
Cassazione Penale, Sezione Terza, sentenza n. 20220/2006 - Condanna a carico del medico competente - Norme di riferimento: artt 16 e. 17 D.Lgs. 626/94 – ora artt. 41 e 25 D.Lgs. 81/08 – D.Lgs. 758/94 |
La sentenza(formato PDF, 50 kB).
Il commento alla sentenza
La ricostruzione del fatto.
La situazione giuridica proposta dal caso in oggetto può essere così ricostruita:
Il primo imputato è il datore di lavoro O., il quale ha omesso di erogare al lavoratore A. “una sufficiente ed adeguata formazione in materia di sicurezza e salute relativa al proprio posto di lavoro e alla propria mansione” ai sensi dell’art. 22 del D.Lgs. 626/94.
Egli si difende deducendo di non poter essere qualificato datore di lavoro sia per l’assenza di documentazione e/o di procura rilasciata dal legale rappresentante della società sia per essere rimasto estraneo al trasferimento del lavoratore e alle contestazioni disciplinari allo stesso indirizzate.
Il secondo imputato è il medico competente, condannato per non avere richiesto al datore di lavoro una visita medica specialistica per il lavoratore A., affetto da psicosi dissociativa, al fine di salvaguardare l’integrità psicofisica del suddetto.
Egli si difende deducendo che “il medico ex art. 17 del D.Lgs. 626/94 non ha l’obbligo di disporre accertamenti specialistici anche in presenza di diagnosi di medici esterni, se non ne reputa la necessità; che egli aveva reiteratamente visitato l’A. e l’aveva ritenuto idoneo alla specifica attività cui era destinato essendo in suo potere discrezionale accedere o meno alla richiesta di visita specialistica avanzata dal lavoratore così come era nella sua competenza professionale e funzionale valutare se la patologia psichiatrica lamentata incidesse sulla sicurezza del lavoro cui doveva essere addetto l’A.”.
Gli imputati sono stati condannati in primo grado al pagamento di un’ammenda che - giova ricordarlo - è la sanzione penale di tipo pecuniario prevista per la commissione di un reato contravvenzionale.
La sentenza in oggetto non consegue ad un infortunio sul lavoro o ad una malattia professionale, bensì è emanata in applicazione del decreto legislativo 19 dicembre 1994 n. 758, che prevede un meccanismo in forza del quale, a seguito di prescrizione da parte dell’organo di vigilanza, l’azione penale può essere sospesa in attesa che il datore di lavoro ottemperi, e poi estinta, previa regolarizzazione, con il pagamento dell’ammenda.
In caso di mancata regolarizzazione il procedimento penale, apertosi al momento della comunicazione al pubblico ministero della notizia di reato da parte dell’organo di vigilanza, prosegue il suo iter regolare.
Nel caso di specie, specifiche prescrizioni erano state emesse da parte degli ispettori del lavoro nei confronti dell’azienda a fronte della violazione degli articoli 17 e 22 del D.Lgs. 626/94, con l’assegnazione di un preciso termine, rimasto inosservato, per la regolarizzazione[1].
Gli imputati ricorrono per Cassazione.
Il principio giuridico
I profili di maggior interesse su cui la Suprema Corte si pronuncia nella sentenza in oggetto sono rappresentati da un lato dalla qualificazione della figura di datore di lavoro e dall’altro dalla condotta omissiva del medico competente.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la Cassazione torna sulla nozione di “datore di lavoro” precisando che “per le violazioni delle norme di sicurezza e d’igiene stabilite nei decreti su citati [decreti prevenzionali e D.Lgs. 626/94, n.d.r.] si deve fare riferimento alla nozione di datore di lavoro definita dall’art. 2 lett. b) del d.lgs. 626/94” e che “datore di lavoro è chi ha la responsabilità dell’impresa o dell’unità produttiva, cui spetta il controllo su tutta l’organizzazione amministrativa e gestionale dell’ente cui è egli preposto; il che comporta anche l’obbligo di assicurare ai lavoratori un’adeguata formazione in materia di sicurezza del lavoro”.
Da qui la Corte opera una interessante distinzione: “Quindi, il direttore di uno stabilimento, specie se non abbia preposto alla direzione del lavori altra persona, ha sempre l’obbligo, quale soggetto apicale dell’unità produttiva (essendo tale, nella specie, lo stabilimento dell’A. in Nola) nell’ambito delle proprie competenze e attribuzioni, di accertarsi che il lavoro degli operai si svolga in condizioni di sicurezza. Invece, solo nel caso in cui l’impresa abbia carattere di società e non sia possibile individuare gli organi tenuti a garantire la sicurezza del lavoro, la relativa responsabilità grava anche penalmente sui legali rappresentanti della società, perchè costoro, ancorché non svolgono mansioni tecniche, sono pur sempre preposti alla gestione della società e si identificano quindi con i soggetti primari destinatari delle norme antinfortunistiche. […]
Nel caso in esame la responsabilità è stata, quindi, correttamente affermata sia per il ruolo rivestito dall’imputato, direttore generale e, quindi, organo apicale dell’ente, nonché datore di lavoro ed unico titolare del potere di spesa, sia per l’omesso rilascio di valida delega nelle materie in questione ad altri dirigenti.”
Per quanto riguarda invece la posizione del medico competente, la Suprema Corte rileva che in presenza di certificazioni provenienti da strutture sanitarie pubbliche, egli avrebbe dovuto prescrivere una visita specialistica, donde un’ingiustificata condotta omissiva considerato che la richiesta del lavoratore era correlata al rischio professionale e che lo stato ansioso era determinato da una presunta sua inadeguatezza, giudicata fondata dagli ispettori del lavoro, rispetto alle mansioni assegnategli con possibile danno per se stesso, per gli altri e per le strutture aziendali.
La Corte conclude affermando che “l’art. 17 del d.lgs. n. 626/94 let. I) prevede che il medico competente, fatti salvi i controlli di cui alla lett. b), effettui le visite mediche richieste dal lavoratore qualora tale richiesta sia correlata ai rischi professionali, sicché, nella specie, ricorrevano le condizioni per sottoporre a visita il dipendente che aveva documentato la persistenza di una patologia psichiatrica grave ricollegabile alle attività lavorative assegnategli. Tuttavia, la condotta dell’imputato [medico competente, n.d.r.] non è stata idonea a soddisfare il precetto normativo perché egli ha eseguito le visite mediche senza essere in possesso di specializzazione in materie psichiatriche e senza il supporto di esami clinici e biologici che erano necessari per rendere effettiva la protezione dal rischio e che rientravano nei controlli che egli poteva disporre nell’esercizio delle funzioni tipiche riconosciutegli dall’art. 16 del decreto citato in tema di sorveglianza sanitaria.” Va osservato che sempre più frequenti sono le sentenze emanate dalla Suprema Corte sugli obblighi e le responsabilità del medico competente. Una per tutte, si veda Cass. Pen., Sez. IV, 28 giugno 2005 n. 24290, in cui la Corte fornisce utili indicazioni in merito al contenuto degli obblighi previsti dagli articoli 16 e 17 del D.Lgs. 626/94, richiamando quanto affermato dalla Corte d’Appello secondo cui “quand’anche non si volesse ritenere nascente dalla segnalazione del disturbo l’obbligo di visita ex art. 16 del D.Lgs. 626/94 si ritroverebbe pur sempre nella lettera i) del comma 1 dell’art. 17 del D.Lgs. n. 626/1994 – che fissa i doveri del medico competente – un generale obbligo in capo a tale soggetto di effettuare una visita medica qualora sia il lavoratore a richiederla e vi sia una correlazione, come in questo caso, tra tale richiesta e i rischi professionali”, tenendo conto che, nella fattispecie, “il comportamento tenuto dalla lavoratrice di recarsi nella sala medica (ove il medico titolare aveva obbligo contrattuale di essere presente e comunque lei si aspettava di trovare) non può infatti che essere interpretato se non come richiesta di diagnosi e terapia rivolta a soggetto competente, cioè, a medico”. E la Cassazione conclude: “gli accertamenti periodici di cui all’art. 16 non sono solo quelli per così dire “programmati” e cioè effettuati in date prefissate, con una frequenza prestabilita, ma possono essere effettuati anche in momenti diversi da quelli programmati, quando il medico competente o il datore di lavoro o il lavoratore stesso ne ravvisino la necessità, essendosi ad esempio verificato un qualche accadimento che imponga di verificare lo stato di salute del lavoratore ed effettuare un giudizio formale sulla sua idoneità alla mansione specifica cui è adibito.” |
La terza parte dell’approfondimento verrà pubblicata la prossima settimana. Per gli abbonati è disponibile l’intero documento in banca dati:
Anna Guardavilla - Approfondimento - Rassegna di giurisprudenza di legittimità 2004-2009 sulle responsabilità del medico competente e del datore di lavoro in materia di sorveglianza sanitaria.
[1] La Suprema Corte rileva infatti che“poiché il primo e unico corso di formazione fu effettuato nel gen. 2002 a seguito di specifica prescrizione in tal senso degli ispettori del lavoro e in modo comunque inadeguato (f. 15 della sent. Impugnata), il reato non è prescritto”.
I contenuti presenti sul sito PuntoSicuro non possono essere utilizzati al fine di addestrare sistemi di intelligenza artificiale.