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Imparare dagli errori: una caduta dall’alto, una storia di insicurezze

Tiziano Menduto

Autore: Tiziano Menduto

Categoria: Imparare dagli errori

17/03/2009

Continuiamo a parlare di incidenti lavorativi raccontando la storia di un lavoratore che cade per quindici metri e sfiora l’infortunio mortale. La stanchezza, la mancanza di formazione, le condizioni ambientali, la fretta: un incidente preannunciato.

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PuntoSicuro ha presentato qualche giorno fa il libro “Bastava poco: storie di vite invisibili”, a cura di Danilo Catania e Cristina Morga.
Un’iniziativa editoriale Acli-Inail che racconta storie di incidenti avvenuti e sfiorati e fa emergere il dolore, la rabbia, la delusione e l'umiliazione che i dati e le schede, di cui spesso ci occupiamo, non possono descrivere.
 
 
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Nel terzo capitolo, intitolato “Per buona volontà”, si parla del trentaduenne Giovanni. Un lavoratore che, nato nel Sud Italia e con in mano un diploma di ragioniere, nella sua vita lavorativa ha potuto conoscere solo i luoghi polverosi e spesso arroventati dal sole dei cantieri.
Il quadro che emerge dai suoi racconti non è rassicurante: ambienti di lavoro in cui gli “operai si muovono con disinvoltura sotto travi penzolanti dalle gru, impalcature di legno traballanti e costruzioni in tubi innocenti mangiati dalla ruggine”.
In questo ambiente ognuno fa il suo lavoro - saldatore, gruista, carpentiere, … - ma è pronto a svolgere qualunque altra mansione: ci si deve arrangiare e spesso questo è l’unico modo di conservare il posto di lavoro.
Giovanni ricorda che il primo giorno di lavoro, davanti alla proposta di un compito che non sapeva svolgere, aveva detto “questa cosa non la so fare, mettetemi nelle condizioni di poterlo fare”. Un collega più anziano gli aveva semplicemente risposto: “ricordati soltanto che tutti sono utili e nessuno è indispensabile”. 
In questi ambienti lavorativi dire “questo non lo voglio fare” è un lusso che purtroppo molti lavoratori non  possono permettersi; in questi ambienti non si devono creare problemi professionali, “né tanto meno connessi alla sicurezza degli ambienti di lavoro”: fuori dal cantiere c’è sempre qualcuno pronto a rimpiazzarti.
 
Ma veniamo all’incidente.
L’attività di Giovanni era il montaggio di impianti di illuminazione e di impianti di energia eolica,  un lavoro svolto a grandi altezze e con pezzi di svariate tonnellate che passano sopra la testa.
Dunque un lavoro già di per sé rischioso ma che poi viene svolto, come appunto racconta il lavoratore, senza un’adeguata preparazione e con turni di lavoro massacranti.
La percezione del rischio? Certo, c’era. Ma Giovanni, per mantenere il suo posto, rimuoveva il pericolo, mostrava, come i suoi colleghi, un “atteggiamento fatalista”.
 
La descrizione dell’incidente parte dalla sveglia, dalla stanchezza di Giovanni che non la sente e deve svegliarsi di fretta e correre al cantiere.
Sul posto di lavoro deve far salire un modulo in alto con un’auto gru.
“Però, praticamente, per il forte vento in quel giorno, questo pezzo tenuto in alto faceva come una bandiera, questo pezzo oscillava in modo pericoloso a 20 metri d’altezza. Non mi posso dimenticare che le persone, tra l’altro anche un capo cantiere, uno di questi caporali, ha iniziato a dirmi: ‘scendi, sbrigati, sbrigati, scendi, prendi la corda’”.
 
Ci siamo abituati con le schede di Informo ad analizzare i fattori determinanti di un infortunio. Ma nel racconto malgrado l’infortunio non sia ancora avvenuto ci sono già diversi fattori che l’incidente lo preannunciano, lo preparano:
- la mancanza di una formazione specifica;
- la stanchezza: gli orari di lavoro sono sicuramente eccessivi (Giovanni spesso lavorava, con turni troppo lunghi, dalle cinque del mattino di lunedì alle otto di sera del sabato);
- la fretta, la “necessità di chiudere il cantiere in tempo”;
- le condizioni meteorologiche e ambientali avverse per quel tipo di manovra: “fissare un modulo di un impianto a venti metri d’altezza con raffiche di vento sostenuto”.
In questa situazione l’infortunio era dietro l’angolo.
 
Giovanni continua il suo racconto: “Fermo il camion in marcia, scendo di corsa, vedevo quel pezzo che praticamente oscillava sopra le nostre teste: era impressionante, un pezzo di 12 tonnellate, stava andando addosso alla gru... C’erano già tre colleghi che tenevano delle corde già sul posto, io sono sceso di corsa. Il capo squadra che gridava perché aveva capito che era una manovra da non fare... o quantomeno da pensarci più di una volta; salto dal camion, afferro la corda. Quel punto del cantiere si trovava in prossimità di un burrone, in una montagna calcarea di gesso; allora prendo la corda che già era attaccata sul pezzo, mi sono messo in forza, per cercare di tenere questo pezzo. Ma la corda non era attaccata bene e praticamente con il peso che avevo io e con il contraccolpo che mi ha dato la corda, sciogliendosi, sono caduto indietro e ho fatto un volo di circa 15 metri, giù nella scarpata”.
 
Fortunatamente Giovanni non muore, un masso gli ha frenato la caduta salvandogli la vita.
Finisce in ospedale e successivamente il quadro clinico, oltre ai traumi fisici evidenzierà anche problemi di natura neurologica e psicologica che tuttora persistono ad oltre un anno dall’incidente: “instabilità, vertigini, areofobia, disturbi post traumatici da stress, che potevano essere dormiveglia e incubi”.
 
La storia di Giovanni prosegue e al dolore dell’infortunio si aggiunge un problema di “valutazioni discordanti tra Inail e Inps” (con la “sospensione da parte dell’ Inail del trattamento economico corrispostogli per l’infortunio”) e le difficoltà di reinserimento lavorativo.
 
Tornando all’incidente e alle frustrazioni e emozioni che traspaiono dal racconto è difficile ribattere con il peso delle normative.
Ad esempio per i lavori in quota una valutazione dei rischi avrebbe previsto una prima fase di identificazione dei pericoli di caduta dall’alto, una stima della probabilità di accadimento con la conseguenza di ciascun pericolo e successivamente l’eliminazione del rischio o, se non era possibile, l’isolamento del rischio mediante l’adozione, ad esempio, di parapetti, impalcati, reti, che permettessero di circoscrivere il luogo con rischio caduta dall’alto.
I rischi residui avrebbero dovuto essere minimizzati, mediante l’uso di DPI di posizionamento o di arresto caduta.
Di tutto questo nel racconto non c’è traccia.
 
Se poi pensiamo alla formazione si può ricordare che nel Decreto legislativo 81/2008 tra le “gravi violazioni” che diventano il presupposto per l’adozione del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale, viene inserita (allegato I del Testo Unico) proprio la “mancata formazione e addestramento”.
Inoltre nell’articolo 2 del D. Lgs. 81/2008 non si parla solo di “formazione”, ma si definisce anche il significato di informazione (“complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro”) e di addestramento (“complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l'uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro”) così da sottolineare meglio le differenze tra queste attività e meglio chiarire il significato specifico di formazione.
Anche queste normative per molti lavoratori in nero o, come nel casi di Giovanni, sospesi tra il rischio e la paura di perdere il lavoro, sembrano non esistere.
 
Riguardo ai cantieri ricordiamo, con la speranza che quanto indicato sia effettivamente attuato, che in Italia il nuovo contratto nazionale degli edili dal 1° gennaio 2009 prevede sedici ore di formazione obbligatoria per i lavoratori al primo impiego.
 
 
- Capitolo terzo del libro “Bastava poco: storie di vite invisibili”, a cura di Danilo Catania e Cristina Morga (formato PDF, 361 kB).
 
 
 
Tiziano Menduto


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