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Cass. Pen., Sez. VI, sentenza 28 ottobre 2009 n. 41398
Commento a cura di A. Guardavilla.
Con questa recente e interessante sentenza, la Suprema Corte si è pronunciata sui possibili profili di conflitto di interesse tra il datore di lavoro rappresentante dell’ente e l’ente stesso, allorché il regime contenuto nel decreto 231 venga applicato a seguito della condanna del datore di lavoro stesso.
In particolare, la pronuncia ha ad oggetto l’art. 39 del D.Lgs. n. 231/01 (“Rappresentanza dell’ente”) che prevede (al primo comma) che “l’ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo.”
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Processi per responsabilita' amministrativa: chi rappresenta l’azienda?
Cass. Pen., Sez. VI, sentenza 28 ottobre 2009 n. 41398
Commento a cura di A. Guardavilla.
Con questa recente e interessante sentenza, la Suprema Corte si è pronunciata sui possibili profili di conflitto di interesse tra il datore di lavoro rappresentante dell’ente e l’ente stesso, allorché il regime contenuto nel decreto 231 venga applicato a seguito della condanna del datore di lavoro stesso.
In particolare, la pronuncia ha ad oggetto l’art. 39 del D.Lgs. n. 231/01 (“Rappresentanza dell’ente”) che prevede (al primo comma) che “l’ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo.”
Nella fattispecie il ricorrente, rappresentante legale di una S.r.l. perseguito per il reato di corruzione commesso nell’interesse della società a sua volta indagata per la responsabilità amministrativa in conseguenza di tale reato, chiede con il primo motivo di ricorso che “sia sollevata questione di costituzionalità dell’art. 39 D.Lgs. 231/2001, in quanto” - a suo dire, tesi che sarà poi smentita dalla Corte - “la norma non consente che la società indagata possa efficacemente difendersi nel caso in cui il suo rappresentante legale sia indagato del reato da cui può derivare la responsabilità della persona giuridica, dal momento che non prevede alcun meccanismo procedurale in grado di ovviare alla situazione di incompatibilità prevista dalla suddetta disposizione, in questo modo violando l’art. 24 Cost. sul diritto di difesa, nonché gli artt. 3 e 111 Cost., in relazione ai principi di uguaglianza e del giusto processo”.
Inoltre con il suo secondo motivo il ricorrente fa presente che l’art. 39 del D.Lgs. 231/01 si riferirebbe “alla qualifica di imputato e non di indagato”, tesi che anche in questo caso non viene confermata dalla Suprema Corte (v. oltre).
La Corte rigetta il ricorso sottolineando anzitutto che “l’eccezione di costituzionalità sollevata dal ricorrente con il primo motivo è manifestamente infondata, in quanto la situazione di incompatibilità cui si riferisce l’art. 39 d.lgs. cit. non determina alcuna violazione delle norme costituzionali invocate nel ricorso” .
Nell’operare una ricognizione del contenuto e della ratio di tale norma, la Cassazione precisa così che ai sensi dell’art. 39 su citato “la partecipazione della persona giuridica al procedimento penale avviene attraverso il proprio rappresentante legale, individuato in base alla disciplina contenuta nello statuto o nell’atto costitutivo dell’ente, che designa l’organo - cioè la persona fisica che ne è titolare - a cui spetta la competenza ad esternare la volontà del soggetto collettivo”.
Ma tale “regola generale” subisce un’eccezione: infatti essa “viene derogata quando il rappresentante legale risulta imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo attribuito all’ente, nel qual caso il citato articolo pone un divieto assoluto per il rappresentante legale di rappresentare l’ente nel procedimento penale, divieto funzionale ad evitare un evidente e insanabile conflitto di interessi anche all’interno della stessa struttura organizzativa della persona giuridica, potendo presumersi che le linee difensive del soggetto collettivo e del suo rappresentante legale vengano a collidere”.
La Corte fuga quindi ogni dubbio sulla legittimità costituzionale di tale previsione, sottolineando che “tale situazione, così come prevista dall’art. 39 cit., non determina né la compromissione del diritto di difesa dell’ente (art. 24), né costituisce violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) ovvero del giusto processo (art. 111 Cost.)”.
Nella formulazione dell’art. 39, inoltre, “il legislatore italiano ha compiuto una scelta diretta ad evitare forme di invadenza giudiziaria all’interno dell’organizzazione della persona giuridica, rimettendo a quest’ultima” – fermo restando il divieto predetto – “ogni decisione al riguardo, nel rispetto della stessa struttura e degli organi del soggetto collettivo” e quindi ha compiuto una scelta diretta ad “evitare di imporre all’ente un rappresentante di nomina esterna”.
A livello pratico, dunque, la previsione di tale divieto comporta per la persona giuridica la possibilità di optare per almeno tre distinte soluzioni (nessuna delle quali in grado di compromettere il diritto di difesa), ovvero:
1) la nomina di un nuovo rappresentante legale;
2) la nomina di un procuratore ad litem;
3) l’inerzia processuale, cioè la mancata adozione di alcun provvedimento di sostituzione del rappresentante legale (con la conseguenza, in termini processuali, che nell’udienza preliminare e nel giudizio l’ente sarà dichiarato contumace ai sensi dell’art. 41 D.Lgs. 231/01 e che verrà quindi nominato un difensore d’ufficio, restando così fuori dalla difesa solo gli atti difensivi c.d. “personalissimi”).
Riguardo poi in particolare alla configurabilità del conflitto di interessi, esso si concreta nella circostanza per cui “la persona giuridica potrebbe avere interesse a dimostrare che il suo rappresentante ha agito nel suo esclusivo interesse o nell'interesse di terzi ovvero a provare che il reato è stato posto in essere attraverso una elusione fraudolenta dei modelli organizzativi adottati, in questo modo escludendo la propria responsabilità e facendola così ricadere sul solo rappresentante: è evidente in tali casi il conflitto di interessi che si verificherebbe qualora l’ente fosse rappresentato dallo stesso soggetto imputato del reato presupposto”.
Secondo la Corte, pertanto, “il divieto di rappresentanza stabilito dall’art. 39 d.lgs. 231/2001 è assoluto, non ammette deroghe in quanto è funzionale ad assicurare la piena garanzia del diritto di difesa al soggetto collettivo imputato in un procedimento penale; d’altra parte tale diritto risulterebbe del tutto compromesso se fosse ammessa la possibilità che l’ente partecipasse al procedimento rappresentato da un soggetto portatore di interessi configgenti da un punto di vista sostanziale e processuale. Per questa ragione l’esistenza del “conflitto” è presunta iuris et de iure dall’art. 39 cit. e la sua sussistenza non deve essere accertata in concreto, con l’ulteriore conseguenza che non vi è alcun onere motivazionale sul punto da parte del giudice, come invece sostiene il ricorrente. Il divieto assoluto di rappresentanza scatta in presenza della situazione contemplata dall’art. 39 cit., cioè quando il rappresentante legale risulta essere imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo, sicché il giudice deve solo accertare che ricorra tale presupposto, senza che sia richiesta una verifica circa un’effettiva situazione di incompatibilità”.
Inoltre, “il divieto di rappresentanza posto dall’art. 39 cit. non può che valere anche nell’ipotesi in cui il rappresentante dell’ente sia soltanto indagato, in quanto la ratio della disposizione va individuata nella necessità di evitare situazioni di conflitto di interesse con l’ente, verificabili soprattutto nelle prime e delicate fasi delle indagini, “di fondamentale importanza per le acquisizioni richieste per gli atti propulsivi del procedimento” […]. D’altra parte, nel nostro sistema processuale le garanzie previste a favore dell’imputato si estendono all’indagato e tale regola, sancita dall’art. 61 c.p.p., trova applicazione anche nel processo a carico dell’ente, attraverso la norma di chiusura di cui all’art. 34 Decreto Legislativo 231/2001”.
E ancora, “così inteso il divieto di cui all’art. 39 Decreto Legislativo 231/2001 produce necessariamente conseguenze sul piano processuale, in quanto tutte le attività svolte dal rappresentante “incompatibile” all’interno del procedimento penale che riguarda l’ente devono essere considerate inefficaci. La riprova di questa soluzione radicale è costituita dall’art. 43 comma 2 Decreto Legislativo 231/2001, che individua l’unica eccezione al divieto di rappresentanza, in quanto riconosce espressamente l’efficacia delle notifiche eseguite mediante la consegna al legale rappresentante “anche se imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo”.
In tal senso, conclusivamente, “la semplice nomina del difensore di fiducia dell’ente da parte del rappresentante legale “incompatibile” deve considerarsi ricompresa nel divieto posto dall’art. 39 comma 1 Decreto Legislativo 231/2001, in quanto realizzata da un soggetto che non è legittimato a rappresentare l’ente, cioè ad esprimere la volontà del soggetto collettivo nel procedimento che lo riguarda. Del resto la nomina del difensore non può essere considerata un atto neutro, ma anzi è strettamente connessa alla partecipazione nel processo, anche in considerazione dei maggiori poteri rappresentativi che il difensore ha nel processo a carico dell'ente (art. 39 comma 4 Decreto Legislativo 231/2001), sicché è evidente come una tale decisione possa apparire quanto meno “sospetta” qualora provenga da un soggetto che la legge considera “incompetente” a rappresentare l’ente. Tra l’altro si tratta di una scelta che determina l’instaurarsi di un rapporto di fiducia tra le parti, garantito anche dal segreto professionale, sicché l’atto di nomina deve avere i caratteri di una libera determinazione dell’ente e non può essere rimessa ad un soggetto che si trova in una situazione di conflitto di interessi, presunta dalla legge in termini assoluti. Le preoccupazioni pratiche rispetto alla necessità di far intervenire al più presto un difensore di fiducia per tutelare la posizione dell’ente, ad esempio per impugnare provvedimenti cautelari emessi a suo carico, sono recessive rispetto all’esigenza di assicurare il pieno ed effettivo diritto di difesa all’ente stesso, anche attraverso un atto di nomina del difensore che non appaia inquinato da valutazioni estranee all’interesse della società coinvolta nel processo. In queste ipotesi la nomina verrà effettuata da un diverso organo della società, che potrà anche essere il nuovo rappresentante legale ovvero il rappresentante ad processum, ma deve escludersi che il difensore possa essere designato dal rappresentante in situazione di incompatibilità”.
Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale - Sentenza n. 41398 del 28 ottobre 2009 - Presidente G. De Roberto, Relatore G. Fidelbo - I motivi per cui l’Ente non può essere rappresentato dal suo rappresentante legale quando l’illecito amministrativo dipenda da un reato commesso proprio da quest’ultimo: i possibili conflitti di interesse tra la persona giuridica e il suo rappresentante legale.
Inoltre con il suo secondo motivo il ricorrente fa presente che l’art. 39 del D.Lgs. 231/01 si riferirebbe “alla qualifica di imputato e non di indagato”, tesi che anche in questo caso non viene confermata dalla Suprema Corte (v. oltre).
La Corte rigetta il ricorso sottolineando anzitutto che “l’eccezione di costituzionalità sollevata dal ricorrente con il primo motivo è manifestamente infondata, in quanto la situazione di incompatibilità cui si riferisce l’art. 39 d.lgs. cit. non determina alcuna violazione delle norme costituzionali invocate nel ricorso” .
Nell’operare una ricognizione del contenuto e della ratio di tale norma, la Cassazione precisa così che ai sensi dell’art. 39 su citato “la partecipazione della persona giuridica al procedimento penale avviene attraverso il proprio rappresentante legale, individuato in base alla disciplina contenuta nello statuto o nell’atto costitutivo dell’ente, che designa l’organo - cioè la persona fisica che ne è titolare - a cui spetta la competenza ad esternare la volontà del soggetto collettivo”.
Ma tale “regola generale” subisce un’eccezione: infatti essa “viene derogata quando il rappresentante legale risulta imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo attribuito all’ente, nel qual caso il citato articolo pone un divieto assoluto per il rappresentante legale di rappresentare l’ente nel procedimento penale, divieto funzionale ad evitare un evidente e insanabile conflitto di interessi anche all’interno della stessa struttura organizzativa della persona giuridica, potendo presumersi che le linee difensive del soggetto collettivo e del suo rappresentante legale vengano a collidere”.
La Corte fuga quindi ogni dubbio sulla legittimità costituzionale di tale previsione, sottolineando che “tale situazione, così come prevista dall’art. 39 cit., non determina né la compromissione del diritto di difesa dell’ente (art. 24), né costituisce violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) ovvero del giusto processo (art. 111 Cost.)”.
Nella formulazione dell’art. 39, inoltre, “il legislatore italiano ha compiuto una scelta diretta ad evitare forme di invadenza giudiziaria all’interno dell’organizzazione della persona giuridica, rimettendo a quest’ultima” – fermo restando il divieto predetto – “ogni decisione al riguardo, nel rispetto della stessa struttura e degli organi del soggetto collettivo” e quindi ha compiuto una scelta diretta ad “evitare di imporre all’ente un rappresentante di nomina esterna”.
A livello pratico, dunque, la previsione di tale divieto comporta per la persona giuridica la possibilità di optare per almeno tre distinte soluzioni (nessuna delle quali in grado di compromettere il diritto di difesa), ovvero:
1) la nomina di un nuovo rappresentante legale;
2) la nomina di un procuratore ad litem;
3) l’inerzia processuale, cioè la mancata adozione di alcun provvedimento di sostituzione del rappresentante legale (con la conseguenza, in termini processuali, che nell’udienza preliminare e nel giudizio l’ente sarà dichiarato contumace ai sensi dell’art. 41 D.Lgs. 231/01 e che verrà quindi nominato un difensore d’ufficio, restando così fuori dalla difesa solo gli atti difensivi c.d. “personalissimi”).
Riguardo poi in particolare alla configurabilità del conflitto di interessi, esso si concreta nella circostanza per cui “la persona giuridica potrebbe avere interesse a dimostrare che il suo rappresentante ha agito nel suo esclusivo interesse o nell'interesse di terzi ovvero a provare che il reato è stato posto in essere attraverso una elusione fraudolenta dei modelli organizzativi adottati, in questo modo escludendo la propria responsabilità e facendola così ricadere sul solo rappresentante: è evidente in tali casi il conflitto di interessi che si verificherebbe qualora l’ente fosse rappresentato dallo stesso soggetto imputato del reato presupposto”.
Secondo la Corte, pertanto, “il divieto di rappresentanza stabilito dall’art. 39 d.lgs. 231/2001 è assoluto, non ammette deroghe in quanto è funzionale ad assicurare la piena garanzia del diritto di difesa al soggetto collettivo imputato in un procedimento penale; d’altra parte tale diritto risulterebbe del tutto compromesso se fosse ammessa la possibilità che l’ente partecipasse al procedimento rappresentato da un soggetto portatore di interessi configgenti da un punto di vista sostanziale e processuale. Per questa ragione l’esistenza del “conflitto” è presunta iuris et de iure dall’art. 39 cit. e la sua sussistenza non deve essere accertata in concreto, con l’ulteriore conseguenza che non vi è alcun onere motivazionale sul punto da parte del giudice, come invece sostiene il ricorrente. Il divieto assoluto di rappresentanza scatta in presenza della situazione contemplata dall’art. 39 cit., cioè quando il rappresentante legale risulta essere imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo, sicché il giudice deve solo accertare che ricorra tale presupposto, senza che sia richiesta una verifica circa un’effettiva situazione di incompatibilità”.
Inoltre, “il divieto di rappresentanza posto dall’art. 39 cit. non può che valere anche nell’ipotesi in cui il rappresentante dell’ente sia soltanto indagato, in quanto la ratio della disposizione va individuata nella necessità di evitare situazioni di conflitto di interesse con l’ente, verificabili soprattutto nelle prime e delicate fasi delle indagini, “di fondamentale importanza per le acquisizioni richieste per gli atti propulsivi del procedimento” […]. D’altra parte, nel nostro sistema processuale le garanzie previste a favore dell’imputato si estendono all’indagato e tale regola, sancita dall’art. 61 c.p.p., trova applicazione anche nel processo a carico dell’ente, attraverso la norma di chiusura di cui all’art. 34 Decreto Legislativo 231/2001”.
E ancora, “così inteso il divieto di cui all’art. 39 Decreto Legislativo 231/2001 produce necessariamente conseguenze sul piano processuale, in quanto tutte le attività svolte dal rappresentante “incompatibile” all’interno del procedimento penale che riguarda l’ente devono essere considerate inefficaci. La riprova di questa soluzione radicale è costituita dall’art. 43 comma 2 Decreto Legislativo 231/2001, che individua l’unica eccezione al divieto di rappresentanza, in quanto riconosce espressamente l’efficacia delle notifiche eseguite mediante la consegna al legale rappresentante “anche se imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo”.
In tal senso, conclusivamente, “la semplice nomina del difensore di fiducia dell’ente da parte del rappresentante legale “incompatibile” deve considerarsi ricompresa nel divieto posto dall’art. 39 comma 1 Decreto Legislativo 231/2001, in quanto realizzata da un soggetto che non è legittimato a rappresentare l’ente, cioè ad esprimere la volontà del soggetto collettivo nel procedimento che lo riguarda. Del resto la nomina del difensore non può essere considerata un atto neutro, ma anzi è strettamente connessa alla partecipazione nel processo, anche in considerazione dei maggiori poteri rappresentativi che il difensore ha nel processo a carico dell'ente (art. 39 comma 4 Decreto Legislativo 231/2001), sicché è evidente come una tale decisione possa apparire quanto meno “sospetta” qualora provenga da un soggetto che la legge considera “incompetente” a rappresentare l’ente. Tra l’altro si tratta di una scelta che determina l’instaurarsi di un rapporto di fiducia tra le parti, garantito anche dal segreto professionale, sicché l’atto di nomina deve avere i caratteri di una libera determinazione dell’ente e non può essere rimessa ad un soggetto che si trova in una situazione di conflitto di interessi, presunta dalla legge in termini assoluti. Le preoccupazioni pratiche rispetto alla necessità di far intervenire al più presto un difensore di fiducia per tutelare la posizione dell’ente, ad esempio per impugnare provvedimenti cautelari emessi a suo carico, sono recessive rispetto all’esigenza di assicurare il pieno ed effettivo diritto di difesa all’ente stesso, anche attraverso un atto di nomina del difensore che non appaia inquinato da valutazioni estranee all’interesse della società coinvolta nel processo. In queste ipotesi la nomina verrà effettuata da un diverso organo della società, che potrà anche essere il nuovo rappresentante legale ovvero il rappresentante ad processum, ma deve escludersi che il difensore possa essere designato dal rappresentante in situazione di incompatibilità”.
Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale - Sentenza n. 41398 del 28 ottobre 2009 - Presidente G. De Roberto, Relatore G. Fidelbo - I motivi per cui l’Ente non può essere rappresentato dal suo rappresentante legale quando l’illecito amministrativo dipenda da un reato commesso proprio da quest’ultimo: i possibili conflitti di interesse tra la persona giuridica e il suo rappresentante legale.
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