Per utilizzare questa funzionalità di condivisione sui social network è necessario accettare i cookie della categoria 'Marketing'
Per visualizzare questo banner informativo è necessario accettare i cookie della categoria 'Marketing'
Responsabilita' del consulente per la sicurezza
Commento a cura della D.ssa Anna Guardavilla.
Con la sentenza n. 15050 del 26 giugno 2009, la Sezione Lavoro della Cassazione si è recentemente pronunciata sulle responsabilità di un consulente aziendale per la sicurezza sul lavoro incaricato - da parte della società datrice di lavoro di un lavoratore poi infortunatosi - di redigere una analisi (e quindi una relazione) preliminare sullo stato dei macchinari esistenti in azienda, propedeutica alla valutazione dei rischi che sarebbe stata poi elaborata dalla committente stessa.
Nella fattispecie, secondo quanto era stato accertato nel merito dalla Corte d’Appello, nell’ambito di tale incarico la società di consulenza aveva preso in esame, tra i vari macchinari e le varie attrezzature presenti nell’azienda committente, anche la (sicurezza della) cesoia utilizzata dal lavoratore al momento dell’infortunio, “senza rilevare nulla in merito all’esigenza di una protezione laterale, rilievi invece mossi, nella relazione presentata alla committente, per altri macchinari, per i quali aveva fatto cenno all’importanza di approntare opere di adeguamento”.
La società di consulenza ricorreva così in Cassazione avverso la pronuncia della Corte d’Appello, facendo valere, a sua discolpa, la circostanza che quello che le “era stato affidato [era] solo l’incarico di redigere una relazione preliminare, e il semplice perfezionamento del contratto non era sufficiente per affermare la sua responsabilità”.
Il suo motivo di ricorso era dunque basato sulla distinzione tra il valore di una relazione preliminare alla valutazione dei rischi e la valutazione dei rischi stessa, quale risultante dal relativo documento, obbligo precipuo del datore di lavoro ai sensi, allora, dell’art. 4 dell’ormai abrogato D.Lgs. 626/94 ed oggi dell’art. 17 D.Lgs. 81/08.
La società di consulenza sottolineava dunque, nel suo ricorso, che “il datore di lavoro è, in base alla normativa sulla sicurezza, tenuto a compiere la valutazione dei rischi, e quindi a compilare una relazione, individuando le misure di sicurezza e programmando quelle ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza, e il consulente esterno offre la propria attività di consulenza e di assistenza necessaria alla redazione del documento sulla sicurezza di cui agli artt. 4 e ss. D.Lgs. n. 626 del 1994.
Mentre qui la committente [omissis] aveva ritenuto di interrompere il rapporto professionale con la ricorrente e di proseguire per proprio conto alla formazione del documento sulla sicurezza.”
Tale impostazione viene però rifiutata dalla Suprema Corte, che non accoglie il motivo di ricorso, sulla base del principio per cui la distinzione tra la relazione preliminare e la stesura del documento dei rischi non ha rilevanza ai fini della causazione dell’evento infortunistico, in quanto la prima è presupposto della seconda.
La Sezione Lavoro della Cassazione infatti, premesso che “la Corte territoriale [ovvero la Corte d’Appello, n.d.r.] ha evidenziato l’esistenza di un valido rapporto contrattuale concluso fra le parti, avente ad oggetto l’incarico di consulenza per l’igiene e la sicurezza dell’ambiente di lavoro”, precisa che “la critica che svolge la ricorrente in ordine alla definizione dell’oggetto dell’accordo, se cioè l’incarico fosse limitato ad una “analisi preliminare” sullo stato dei macchinari esistenti in azienda sotto il profilo della sicurezza degli ambienti di lavoro, ovvero dovesse comprendere anche la consulenza per la redazione del “documento sulla sicurezza” che fa carico all’azienda a termini della denunciata normativa del 1994, non ha rilevanza”.
Ciò in quanto “l’indagine svolta dalla società era estesa, come evidenzia la sentenza impugnata con statuizione non sottoposta a censura, a tutti i macchinari, compresa la cesoia cui era addetto l’infortunato, senza che per tale attrezzatura la [omissis] avesse mosso alcun appunto circa l’esigenza di una protezione laterale, mentre aveva fatto cenno di approntare opere di adeguamento per la sicurezza di altri impianti, come del resto la stessa ricorrente ammette nel presente ricorso”.
Dunque la circostanza che il documento di valutazione dei rischi fosse stato redatto dalla committente e non dalla società di consulenza non è stata, secondo la Corte, tale da interrompere il nesso di causalità tra l’inadeguatezza della relazione preliminare, che non aveva rilevato la pericolosità della cesoia poi utilizzata dal lavoratore, e l’infortunio subito da quest’ultimo.
Il consulente aveva infatti omesso di adempiere all’obbligo, assunto mediante l’incarico professionale, di segnalare alla committente la presenza di macchinari/attrezzature non conformi alla normativa di sicurezza sul lavoro.
E in tal senso conclude la Corte: “nessuna incidenza può avere ai fini della responsabilità della società ricorrente per l’inadempimento dell’obbligazione a suo carico, consistente nella segnalazione alla committente dei macchinari esistenti in azienda, non conformi alla normativa di sicurezza, la circostanza che non era stata redatta la relazione di sicurezza con la valutazione dei rischi e che questo compito facesse carico all’azienda datrice di lavoro, dovendo anzi rilevarsi che detti ulteriori adempimenti previsti dal denunciato d.lgs. n. 626 del 1994 [ora D.Lgs. 81/08, n.d.r.] presuppongono l’analisi della sicurezza dei macchinari e dell’ambiente di lavoro.”
La Suprema Corte ha dunque riconosciuto la sussistenza di un nesso causale tra la relazione preliminare redatta dal consulente (contenente un’omissione rilevante ai fini dell’infortunio) e l’infortunio stesso, e che tale nesso causale non era stato interrotto dalla circostanza cha altri avessero redatto il documento di valutazione dei rischi, in quanto il contenuto di quest’ultimo era inevitabilmente condizionato dagli esiti dell’analisi preliminare.
Il nesso di causalità, qui oggetto di analisi e verifica da parte della Corte, è in termini generali la relazione esistente tra un’azione o un’omissione da parte di una persona e un evento dannoso o pericoloso.
Tale rapporto va attentamente valutato in concreto.
Occorre ricordare che secondo l’ordinamento giuridico, ai fini dell’individuazione del nesso di causalità, trovano applicazione anche in sede civilistica i principi contenuti negli artt. 40 e 41 del codice penale (così come poi interpretati dalla giurisprudenza della Cassazione), per cui è causa di un evento qualunque antefatto senza il quale tale evento non si sarebbe verificato (teoria della condicio sine qua non).
La disciplina del nesso causale è contenuta nell’art. 40 del codice penale (“rapporto di causalità”), che prevede al primo comma che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”.
Il meccanismo per individuare se un’azione od un’omissione possa ritenersi legata da un nesso causale all’evento lesivo è rappresentato dal giudizio c.d. “controfattuale”, che prevede, per tale verifica, l’applicazione del cosiddetto procedimento di eliminazione mentale: un’azione è condicio sine qua non (antefatto necessario) di un evento se non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento stesso venga meno.
Nel caso oggetto della sentenza in commento, ad esempio, provando mentalmente ad eliminare l’omissione contenuta nella relazione preliminare sulla pericolosità della cesoia (e quindi a sostituirla idealmente con la corrispondente azione: la rilevazione della pericolosità della cesoia), nel caso si trattasse di una causa rilevante a produrre l’infortunio (un antecedente necessario) dovrebbe eliminarsi anche l’ipotesi dell’infortunio. Nel caso in cui invece tale causa non fosse conditio sine qua non, l’infortunio – a seguito di tale procedimento di eliminazione mentale - non potrebbe essere idealmente eliminato, continuando a sussistere la vera causa dello stesso.
Si tenga presente comunque che perché l’azione umana assurga a causa, è sufficiente che rappresenti una delle condizioni che concorrono a produrre l’evento, ed in base alla c.d. “teoria dell’equivalenza” è considerata di pari valore l’attitudine causale di tutti gli antecedenti necessari all’evento.
Per quanto riguarda l’obbligazione che grava sul professionista, poi, si tenga presente che questi deve possedere specifiche cognizioni tecniche tali da assicurare il risultato promesso al committente, ed il suo comportamento va valutato alla stregua del parametro della diligenza, rapportata alla natura ed alla specie dell’incarico professionale (art. 1176 c. 2 c.c.: “Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata”).
Con la sentenza n. 15050/2009, dunque, la Suprema Corte richiama l’attenzione sul delicato ruolo del professionista che, pur non essendo direttamente destinatario degli obblighi prevenzionali e quindi passibile di incorrere nei “reati propri” definiti dall’ordinamento di salute e sicurezza sul lavoro, è chiamato mediante accettazione di un incarico professionale a mettere il datore di lavoro in condizione di adempiere ai suoi obblighi, in primis quello di valutare tutti i rischi (in questo senso il principio contenuto ad es. nella sent. di 1° grado sul caso Galeazzi - Trib. Milano, Sez. IX Penale 27.9.02, est. Bruno Giordano - seppure riferito nel caso di specie all’RSPP esterno: “qualora egli non adempia alla propria funzione di consulente anche il datore di lavoro non è in grado di adempiere esattamente ai propri obblighi, in particolare a quelli previsti dall’art. 4 d.lvo 626/94”).
I contenuti presenti sul sito PuntoSicuro non possono essere utilizzati al fine di addestrare sistemi di intelligenza artificiale.
Pubblica un commento
Rispondi Autore: angelo angoscini - likes: 0 | 13/07/2009 (12:21) |
nel caso specifico la responsabilità del consulente è originata dall'incarico specifico affidato (analisi del macchinario); infatti, se l'incarico fosse stato la "semplice" valutazione dei rischi allora sarebbero probabilmente valse le eccezioni portate a difesa, visto che la "valutazione dei rischi" è affidata al DdL. Anche l'appello ed il ricorso alla Cassazione secondo me sono stati impostati male, tirando in ballo la sottigliezza della valutazione preliminare... ma io non sono un legale |