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Leggi la prima parte: “Sorveglianza sanitaria: le responsabilita' del datore di lavoro”.
Leggi la seconda parte: “Sorveglianza sanitaria: le responsabilita' del Medico Competente”.
Leggi la terza parte: “Sorveglianza sanitaria: assoluzione del DdL e del MC”.
Rassegna di giurisprudenza di legittimità 2004-2009 sulle responsabilità del medico competente e del datore di lavoro in materia di sorveglianza sanitaria
Selezione di importanti sentenze emanate in attuazione del D.Lgs. 626/94, compatibili - in virtù del principio di continuità normativa - con il D.Lgs. 81/08
A cura di Anna Guardavilla
La Suprema Corte giudica con questa sentenza in merito alla responsabilità di un datore di lavoro per aver adibito un dipendente cinquantasettenne, con una grave patologia cardiaca e già colpito da infarto, al trasporto manuale di carichi cagionandogli in tal modo un ulteriore infarto e quindi determinandone il decesso.
La responsabilità dell’imputato consisterebbe nell’aver omesso di sottoporre tale lavoratore alla prescritta visita medica che avrebbe evidenziato la grave patologia evitando il decesso (non sussiste).
La sentenza integrale
Fatto e Diritto
Il tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha affermato la penale responsabilità di S.E. in ordine al reato di omicidio colposo in danno di Z.G.; e lo ha altresì condannato al risarcimento del danno nei confronti della costituita parte civile, da liquidarsi in separata sede.
La pronuncia è stata confermata dalla Corte d’appello di Napoli.
L’imputazione attiene ad un infortunio sul lavoro.
All’imputato, datore di lavoro della vittima viene contestato di avere adibito il dipendente, operaio cinquantasettenne, al trasporto di mobili da traslocare, sebbene fosse stato colpito nell’anno 1981 da infarto miocardico acuto e fosse affetto da una grave patologia cardiaca.
Lo sforzo eccessivo determinava un altro episodio di infarto miocardico acuto con esito letale.
Ricorrono per cassazione i difensori deducendo diversi motivi.
L’avvocato I. ne enuncia quattro.
1. Si premette che nel marzo del 1999, cioè circa nove mesi prima dell’evento mortale, lo Z. era stato sottoposto a controlli medici ai sensi del D.Lgs. 626/94 nell’ambito di un diverso rapporto di lavoro.
In tale occasione, sulla base di indagini mediche, non emerse l’esistenza di una pregressa cardiopatia.
Evidentemente il lavoratore non dichiarò il precedente episodio infartuale avendo necessità di svolgere attività lavorativa.
Alla luce di tale acquisizione si assume che la corte territoriale abbia applicato in modo errato l’art. 40 c.p..
Si rammenta che il sistema vigente accoglie la concezione condizionalistica della causalità fondata sul procedimento di eliminazione mentale: una condotta è condizione dell’evento se non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento stesso venga meno.
Nel caso in esame si è in presenza di morte per cause naturali dovute all’evolversi di una malattia congenita; e non è possibile ritenere che senza l’avviamento al lavoro l’evento non si sarebbe verificato.
Depongono in tal senso le dichiarazioni del consulente della difesa.
Questi ha evidenziato che gli episodi infartuati si verificano nelle condizioni più disparate, in modo casuale e nella maggior parte dei casi addirittura alle prime ore dell’alba, durante il riposo.
In conseguenza non è possibile correlare la morte con lo sforzo fisico.
Lo sforzo induce un aumento del flusso sanguigno, ma l’infarto è dovuto alla rottura di una placca che non è collegata all’aumento del flusso.
L’esposizione della censura si conclude trascrivendo un breve passo del deposizione del consulente nel quale viene enunciato risolutamente che l’arresto cardiaco per infarto non è correlabile con lo sforzo.
2. Difetto di motivazione in ordine ad un punto essenziale della controversia.
La Corte non ha spiegato perché la condotta addebitata all’imputato sia stata ritenuta commissiva e non omissiva in contrasto con le tesi accusatoria e con le emergenze processuali.
Infatti l’accusa nei confronti del S. si sostanzia nel non aver impedito ad un malato di cuore di lavorare, creando così le condizioni che favorivano l’evento.
3. Illogicità della motivazione.
La Corte, si assume, ha motivato la sentenza di condanna riportando spezzoni di dichiarazioni dei due consulenti delle parti.
In tal modo ha realizzato una sorta di mosaico d’accusa usando come tasselli parti di frasi in sintonia con le tesi accusatoria.
Si tratta di operazione logica non accettabile poiché le posizioni vanno considerate nella loro interezza e nel logico susseguirsi delle argomentazioni.
4. Mancata assunzione di una prova decisiva.
Sia in primo grado che in appello i giudici non hanno mai ammesso il confronto tra il consulente del pubblico ministero e quello della difesa.
Si tratta di prova decisiva tesa a definire il rapporto di causa tra il lavoro all’evento mortale nel contrasto tra le due opposte posizioni.
Il difensore avvocato Ir. ha presentato distinto ricorso nel quale sono stati riportati in modo coincidente i quattro motivi sopra esposti.
E’ stato quindi enunciato un quinto motivo.
In esso vengono esposte distinte argomentazioni che, quanto ai profili rilevanti nella presente sede di legittimità, possono essere sintetizzate nei seguenti termini.
La pronunzia, si assume, basandosi sulla relazione del consulente del pubblico ministero, afferma che lo sforzo sia un fattore eziologicamente rilevante nella causazione dell’infarto.
In conseguenza sarebbe stato necessario accertare se l’operaio fosse stato effettivamente sottoposto in qualche occasione ad uno sforzo particolare.
Dal processo non emerge che la vittima abbia trasportato da solo carichi superiori a 30 kg.
Inoltre la presenza di più operai impegnati nel lavoro è stata logicamente considerata la prova della quantità del carico, senza considerare che essa era dimostrazione della equa distribuzione dei carichi e degli sforzi.
Si lamenta inoltre che la pronunzia non abbia chiarito l’incidenza del mancato controllo medico rispetto all’evento letale.
Dalla sentenza si apprende che lo Z. era stato sottoposto a controllo medico nel marzo 1999 dal quale non erano emerse pregresse patologie cardiache; che lo stesso non aveva fatto dichiarazioni sul suo stato di malattia nè alla ditta ove aveva precedentemente lavorava nè al suo nuovo datore di lavoro.
Le mansioni alle quali era da ultimo adibito erano del tutto omogenee a quelle svolte presso la ditta presso la quale aveva lavorato fino a qualche giorno prima di essere assunto dall’imputato.
In conseguenza era stato adempiuto il controllo sulle condizioni di salute dell’operaio che deve avere cadenza annuale; e l’imputato faceva affidamento su tale certificazione.
Inoltre, tra l’imputato e la vittima vi erano anni di pregressa conoscenza; e si era inoltre in presenza di un lavoro senza ritmi imposti.
La contemporanea presenza di questi presupposti esclude l’individuazione di estremi della colpa. L’evento non era prevedibile nè erano esigibili nei confronti dell’imputato comportamenti diversi.
La motivazione, si lamenta infine, è affetta da illogicità giacché è del tutto congetturale che l’eventuale visita medica avrebbe sicuramente determinato giudizio di inidoneità o comunque divieto di lavori si comportassero movimentazione manuale dei carichi.
Gli esposti motivi di ricorso sono infondati, eccezione fatta per quello afferente alla dimostrazione del nesso causale.
La pronunzia espone che la vittima era un operaio di 57 anni già infartuato ed affetto da una grave cardiopatia ischemica che avrebbe richiesto uno stile di vita particolarmente tranquillo.
Si dà diffusamente conto dell’esito dell’autopsia che ha rivelato una miocardiopatia ipertrofica su basi ischemica, miocardio-sclerosi, severa malattia ateromasica, con stenosi ed occlusione completa del tratto sub epicardico dei rami coronarici; aree sclerotiche nel miocardio del ventricolo sinistro; sclerosi delle pareti dei vasi coronarici con occlusione completa del lume di un vaso.
Il 23 dicembre 1999, evidenzia altresì la sentenza, il lavoratore fu impegnato dalle otto del mattino insieme ad altri tre operai nel trasloco degli arredi dell’ufficio dell’imputato.
Si trattava di compito assai impegnativo.
I mobili erano solo in parte smontati e ridotti in pezzi.
Il trasporto fu compiuto utilizzando un camion Iveco che ha una portata di 100 quintali e furono necessari due viaggi.
Inoltre il lavoro era gravoso: come riferito da uno dei testi, un operaio si trovava all’interno del camion, prendeva un pezzo e lo passava ad uno dei lavoratori che si trovavano in terra e che procedevano al trasporto.
Lo Z. fu colpito da infarto mentre si dirigeva verso il camion dopo aver portato a compimento il trasporto di un mobile.
L’evento mortale si verificò intorno alle 14.30.
Il lavoratore si accasciò improvvisamente al suolo senza dare segni di vita e giunse cadavere al pronto soccorso.
Secondo il consulente del pubblico ministero non vi sono dubbi sulla correlazione causale tra lo sforzo fisico cui lo Z. fu sottoposto nel corso dell’attività lavorativa e la morte. Al contrario, si evidenzia, il consulente della difesa si è mostrato perplesso sulla possibilità di ritenere il nesso causale tra sforzo fisico e l’evento letale, a meno che non si tratti di uno sforzo sovrumano. La pronunzia perviene alla conclusione che tali perplessità possono essere superate. E’ infatti verosimile che dopo circa sei ore di impegno fisico si fosse determinato uno sforzo imponente, avuto riguardo alle sue gravi condizioni di salute ed alla stanchezza accumulata.
Viene quindi evidenziato il rapporto tra la contestata violazione di disposizioni del D.Lgs. n. 626 del 1994 e l’evento mortale, analizzando le censure proposte dalla difesa. La stessa difesa ha sottolineato che il controllo medico compiuto il 6 marzo del 1999 non aveva evidenziato la patologia cardiaca, che era stata nascosta dal lavoratore. In proposito la Corte osserva che tale controllo riguardava le diverse mansioni di impacchettatore presso un tabacchificio all’epoca svolte dallo Z.. Peraltro il richiamato decreto legislativo prevede che la sorveglianza sanitaria deve verificare e costantemente assicurare l’idoneità del lavoratore alle specifiche mansioni cui è adibito. Nel comparto edilizio la movimentazione manuale dei carichi costituisce specifico fattore di rischio, tanto che i protocolli di medicina del lavoro prevedono tra l’altro come obbligatorio l’esame elettrocardiografico ed eventualmente una visita cardiologica a maggior ragione quando si tratti di soggetti che hanno superato il quarantesimo anno di età (la vittima ne aveva (omissis)). Pertanto anche dando per scontato che lo Z. in sede di visita preventiva non avrebbe dichiarato il pregresso infarto e la patologia cardiaca da cui è affetto, è da ritenersi che questa sarebbe stata comunque evidenziata dagli accertamenti e avrebbe sicuramente determinato uno giudizio di inidoneità o comunque di divieto di lavori che comportassero movimentazione manuale di carichi. A ciò la pronunzia aggiunge che l’imputato sapeva che il lavoratore aveva avuto in passato problemi di cuore come dallo stesso ammesso in giudizio. La sentenza espone tra l’altro che lo stesso consulente della difesa ha evidenziato che la patologia riscontrata avrebbe richiesto un intervento di bay-pass coronario nonché riabilitazione cardiovascolare in centro specializzato; e che in assenza di tali interventi non avrebbe mai autorizzato lo svolgimento di un’attività fisica intensa.
Alla luce di tale sintesi della pronunzia emerge che alcune delle censure sono palesemente infondate. In breve, la torte non ha per nulla ritenuto che si sia in presenza di una causalità commissiva, giacchè da sempre correlato il giudizio causale alla condotta omissiva costituita dalla mancata sottoposizione del dipendente alla prescritta visita medica. Neppure censurabile è l’utilizzazione delle informazioni scientifiche provenienti dai consulenti: l’esposizione cita non senza qualche dettaglio i tratti più rilevanti delle tesi sostenute, le compara e le analizza criticamente. Pure priva di sostegno e la tesi afferente alla mancata assunzione della prova decisiva costituita dal confronto tra i consulenti. I ricorrenti non spiegano sotto quale profilo tale confronto sarebbe risultato decisivo, mentre la Corte d’appello espone ragionevolmente che tale atto non appare necessario, atteso che i dubbi del consulente della difesa possono essere superati per ragioni che vengono analiticamente esposte e che riguardano soprattutto la dimostrazione della particolare gravosità del lavoro compiuto dalla vittima. Pure prive di sostegno sono le argomentazioni difensive concernenti l’inutilità della nuova visita medica, atteso che essa era stata già compiuta nell’ambito del precedente rapporto di lavoro. Sul punto, come emerge dalla sintesi che ne è stata sopra proposta, la sentenza evidenzia con argomentazione incontrovertibile che non si era in presenza di attività lavorative omogenee, e che la nuova richiedeva un esame elettrocardiografico che avrebbe sicuramente evidenziato la grave patologia da cui la vittima era affetta. Infine, pure priva di pregio è la censura inerente all’assenza di colpa, atteso che l’imputato ha imprudentemente omesso di richiedere l’indagine medica di cui si discute.
La sentenza, invece, non è sufficientemente persuasiva per ciò che riguarda la dimostrazione del nesso causale. Essa non tiene adeguatamente in conto l’insegnamento espresso dalla nota giurisprudenza delle Sezioni unite di questa Corte (S.U. 10 luglio 2002, Franzese).
Come è noto l’ordinamento accoglie la concezione condizionalistica della causalità cui è strettamente legato il giudizio logico controfattuale, necessario per riscontrare l’effettivo rilievo condizionante del fattore considerato: se dalla somma degli antecedenti si elimina col pensiero la condotta umana ed emerge che l’evento si sarebbe verificato comunque, allora essa non è condizione necessaria; se invece, eliminata mentalmente l’azione, emerge che l’evento non si sarebbe verificato, allora occorre ritenere che fra l’azione e l’evento esiste un nesso di condizionamento. Nei reati omissivi impropri il meccanismo controfattuale viene posto in opera immaginando la condotta mancata e verificando se la sua adozione avrebbe impedito la produzione dell’evento. Naturalmente il procedimento di eliminazione mentale, per poter funzionare, presuppone che siano già note le regolarità scientifiche od esperienziali che governano gli accadimenti oggetto d’interesse.
Nell’ambito dei reati commissivi mediante omissione tale indagine si rivela particolarmente problematica. Infatti, nei reati commissivi l’azione umana è una parte naturalisticamente reale, certa, della spiegazione dell’evento. E’ quindi chiaro quale parte degli accadimenti occorre sottrarre per porre in opera il giudizio controfattuale. Al contrario nei reati omissivi, dal punto di vista naturalistico, si è in presenza di un nulla, di un non facere. La condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l’evento deve essere rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo fondato precipuamente su ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso concreto. Alla stregua di tale base ricostruttiva occorre determinare se l’azione doverosa avrebbe avuto concrete chances di salvare il bene protetto o di annullare il rischio.
Per governare tale difficile indagine appare utile attingere all’insegnamento della richiamata pronunzia delle Sezioni unite. La Corte ha evidenziato l’autonomia dogmatica e la forte componente normativa della causalità omissiva, determinata dalla clausola di equivalenza di cui all’art. 40 c.p., dal copioso nucleo normativo concernente la disciplina della posizione di garanzia, infine, nei reati colposi, dagli specifici doveri di diligenza. Tuttavia tale autonomia in chiave normativa non giustifica l’erosione del paradigma causale nell’omissione verificatasi nella giurisprudenza di legittimità. Lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello del condizionale controfattuale: occorrerà quindi verificare se, qualora si fosse tenuta la condotta doverosa e diligente, il singolo evento di danno non si sarebbe verificato o si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Le incertezze applicative riscontrate in ambito giurisprudenziale riguardano i criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale, ma esse non mettono in crisi lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità, bensì la sua concreta verifica processuale.
Le Sezioni Unite propongono un modello dell’indagine causale che integra abduzione ed induzione, cioè l’ipotesi (l’abduzione) circa la spiegazione degli accadimenti e la concreta, copiosa caratterizzazione del fatto storico (l’induzione). Induzione ed abduzione s’intrecciano dialetticamente: l’induzione (il fatto) costituisce il banco di prova critica intorno all’ipotesi esplicativa. La prospettiva è quella di una ricostruzione del fatto dotata di alta probabilità logica, ovvero di elevata credibilità razionale. E’ stato peraltro sottolineato dalla stessa pronunzia, quanto all’identificazione del grado di conferma o probabilità logica dell’ipotesi ricostruttiva del fatto prospettata dall’accusa - che possa considerarsi “sufficiente” per vincere la presunzione d’innocenza e giustificare legalmente la condanna dell’imputato - che, poiché la condizione necessaria è requisito oggettivo della fattispecie criminosa, essa deve essere dimostrata con rigore secondo lo standard probatorio dell’“oltre il ragionevole dubbio” che il giudizio penale riserva agli elementi costitutivi del fatto di reato.
Il giudice è impegnato nell’operazione logico-esplicativa alla stregua dei percorsi epistemologici indicati dall’art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, quanto al ragionamento sull’evidenza probatoria, e dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per la doverosa ponderazione del grado di resistenza dell’ipotesi di accusa rispetto alle ipotesi antagoniste o alternative, in termini conclusivi di “certezza processuale” o di “alta probabilità logica” della decisione.
L’indicato impegnativo modello d’indagine è fondato su un rigoroso atteggiamento critico e su un serrato confronto tra l’ipotesi e i fatti: la congruenza di un’ipotesi ricostruttiva non dipende dalla coerenza formale, né dalla corretta applicazione di schemi inferenziali di tipo meramente deduttivo, bensì dal confronto con i fatti espressi da una situazione data, che possono confermarla o falsificarla.
In breve, la corroborazione dell’ipotesi è fondata sulla affidabilità delle informazioni scientifiche utilizzate; sull’evidenza probatoria, disponibile e coerente con l’ipotesi stessa; nonché, infine, sulla capacità di resistenza di questa rispetto alle contro-ipotesi. Solo in un quadro fattuale così profondamente investigato ed interrogato può esservi razionalità dell’ipotesi e la coerenza logico-argomentativa dell’enunciato diviene oggettiva dimostrazione di “verità” processuale. Insomma, solo la strenua ricerca delle più ampie informazioni scientifiche e probatorie e la rigorosa adesione ad esse può fondare il giudizio d’imputazione causale.
Tale ordine concettuale deve essere applicato anche nel giudizio controfattuale che, nei casi come quello in esame, riguarda l’effetto salvifico delle cautele omesse.
Applicando i principi esposti, l’affermazione del nesso causale può essere conseguita solo pervenendo alla argomentata conclusione che, con ragionevole certezza, l’adempimento costituito dalla visita medica di cui si è fin qui discusso avrebbe evitato l’evento letale nella situazione in cui si è concretamente verificata. A tale questione la Corte d’appello non da una risposta compiuta. Si afferma infatti che nelle condizioni date un forte sforzo costituisce una controindicazione ed un fattore di rischio rilevantissimo; ma non si esclude in modo argomentato e persuasivo che, considerata la gravità della patologia, l’infarto letale potesse scatenarsi indipendentemente dall’impegnativo lavoro compiuto. E’ cioè mancata una indagine controfattuale fondata su una compiuta analisi di tutte le circostanze concretamente rilevanti e su informazioni scientifiche affidabili. La Corte adombra, senza svilupparle ed utilizzarle, alcune utili informazioni come ad esempio quelle esposte dallo stesso consulente della difesa e che riguardano le misure terapeutiche che avrebbero potuto essere adottate nel caso in cui la grave patologia fosse stata diagnosticata all’esito della visita medica: si accenna a terapie mediche, riabilitative, chirurgiche. Tali questioni, tanto più se adeguatamente approfondite, sembrano astrattamente in grado di fornire, unitamente a tutte le altre, un contributo ai fini della risoluzione dell’interrogativo in ordine al ruolo salvifico della discussa visita medica.
In conclusione il giudice di merito dovrà dar corso all’indicato giudizio controfattuale acquisendo, ove occorra, le informazioni scientifiche necessarie; e ponderando tutte le circostanze rilevanti.
L’interrogativo a cui dovrà darsi risposta è se, a seguito degli esami medici, considerando anche tutte le misure terapeutiche che sarebbero state da attendersi nelle circostanze date, sarebbe stato evitato con ragionevole certezza l’evento concretamente verificatosi.
A tal fine l’impugnata sentenza va annullata con rinvio.
P. Q. M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli.
Tale sentenza ha ad oggetto le modalità di attuazione dell’art. 4 comma 5 lettera c) del D.Lgs. 626/95, ora sostituito dall’art. 18 comma 1 lettera c) del D.Lgs. 81/08, che pone l’obbligo del datore di lavoro di tenere conto, nell’affidamento dei compiti ai lavoratori, delle capacità e condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e sicurezza.
La Cassazione precisa che tale valutazione, che deve porsi come preliminare rispetto all’attribuzione di un compito al lavoratore, deve essere affidata specificatamente al medico competente, figura che è in possesso della idonea professionalità per poter svolgere adeguatamente tale verifica.
La Suprema Corte sottolinea, inoltre, che la violazione di tale norma integra un reato di natura permanente (e non istantanea) che cessa nel momento in cui il datore di lavoro si attiva per porre in essere tale verifica, anche dopo l’inizio della attività lavorativa, in accordo con la volontà del legislatore che ha previsto che a seguito delle visite preventive l’idoneità del lavoratore continuasse ad essere verificata mediante le visite periodiche (v. art. 16 D.Lgs. 626/94, ora art. 41 del D.Lgs. 81/08). Ciò “in quanto, l’interesse dello Stato alla effettiva assunzione delle misure di salvaguardia della salute del lavoratore non è limitato alla fase che precede l’assegnazione dei compiti ma perdura per l’intero rapporto”.
Nella fattispecie, il Presidente del Consiglio di Amministrazione e consigliere di una cooperativa, è stato condannato dal Tribunale alla pena della ammenda di euro 1.600 per avere violato la norma predetta non segnalando al medico competente la necessità di effettuare gli accertamenti sanitari ad alcuni lavoratori neoassunti prima di affidare loro i compiti da svolgere.
Nel confermare la condanna al datore di lavoro, la Cassazione fornisce significative indicazioni sulla figura del medico competente, sottolineando che “è a questa figura che il datore di lavoro deve rapportarsi per le finalità indicate dall’articolo 4, comma 5, lettera c)”.
E prosegue: “come si rileva dalla formulazione dell’articolo 16 che, dopo avere premesso al comma 1 che la sorveglianza sanitaria è effettuata nei casi previsti dalla normativa vigente, inequivocabilmente stabilisce al comma successivo che la sorveglianza di cui al comma 1 è effettuata dal medico competente e comprende:
a) accertamenti preventivi intesi a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui i lavoratori sono destinati, ai fini della valutazione della loro idoneità alla mansione specifica;
b) accertamenti periodici per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica”.
Tutto ciò fermo restando che il medico competente è nominato in azienda solo allorché vi siano lavoratori esposti a rischi per i quali è necessaria la sorveglianza sanitaria, circostanza che ricorreva nella fattispecie.
Secondo la Suprema Corte “è chiaro, dunque, l’intento del legislatore di anticipare la tutela del lavoratore stesso sanzionando con l’articolo 89, lettera b) l’inadempimento dell’obbligo indipendentemente dalla idoneità effettiva del lavoratore a rivestire la mansione specifica o a svolgere la tipologia dei compiti assegnatigli. E dunque, nei casi in cui è richiesta, la funzione del medico competente non può essere altrimenti surrogata”.
L’art. 4 comma 5 lettera c) del D.Lgs. n. 626/94, inoltre, “contempla senza limitazione temporale alcuna l’obbligo per il datore di lavoro di affidare i compiti ai lavoratori tenendo conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza”. Tale norma “va evidentemente coordinata con quella dell’articolo 16 che ai fini della valutazione della idoneità alla mansione specifica dei lavoratori prevede che la sorveglianza sanitaria si eserciti non solo mediante accertamenti preventivi intesi a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui i lavoratori sono destinati (articolo 16 comma 2, lettera a), ma anche attraverso gli accertamenti periodici per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica (articolo 16, comma 2, lettera b)”.
In conclusione, “appare evidente, pertanto, che la sorveglianza sanitaria non è circoscritta alla fase che precede l’assegnazione alle mansioni del dipendente. Si deve, pertanto, necessariamente concludere, a parere del Collegio, per la natura permanente del reato perdurando l’obbligo della sorveglianza sanitaria anche nel corso dello svolgimento delle mansioni e, quindi, la condotta lesiva dell’interesse protetto sino a quando il datore di lavoro non ottemperi all’obbligo di procedere agli indicati accertamenti”.
L’ultima parte dell’approfondimento verrà pubblicata la prossima settimana. Per gli abbonati è disponibile l’intero documento in banca dati:
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Sorveglianza sanitaria: quando la responsabilita' non sussiste
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Rassegna di giurisprudenza di legittimità 2004-2009 sulle responsabilità del medico competente e del datore di lavoro in materia di sorveglianza sanitaria
Selezione di importanti sentenze emanate in attuazione del D.Lgs. 626/94, compatibili - in virtù del principio di continuità normativa - con il D.Lgs. 81/08
A cura di Anna Guardavilla
Cassazione Penale, Sezione Quarta, 20 luglio 2007 n. 29180 - Responsabilità del datore di lavoro – non sussiste - Norme di riferimento: art. 589 c.p. |
La Suprema Corte giudica con questa sentenza in merito alla responsabilità di un datore di lavoro per aver adibito un dipendente cinquantasettenne, con una grave patologia cardiaca e già colpito da infarto, al trasporto manuale di carichi cagionandogli in tal modo un ulteriore infarto e quindi determinandone il decesso.
La responsabilità dell’imputato consisterebbe nell’aver omesso di sottoporre tale lavoratore alla prescritta visita medica che avrebbe evidenziato la grave patologia evitando il decesso (non sussiste).
La sentenza integrale
Fatto e Diritto
Il tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha affermato la penale responsabilità di S.E. in ordine al reato di omicidio colposo in danno di Z.G.; e lo ha altresì condannato al risarcimento del danno nei confronti della costituita parte civile, da liquidarsi in separata sede.
La pronuncia è stata confermata dalla Corte d’appello di Napoli.
L’imputazione attiene ad un infortunio sul lavoro.
All’imputato, datore di lavoro della vittima viene contestato di avere adibito il dipendente, operaio cinquantasettenne, al trasporto di mobili da traslocare, sebbene fosse stato colpito nell’anno 1981 da infarto miocardico acuto e fosse affetto da una grave patologia cardiaca.
Lo sforzo eccessivo determinava un altro episodio di infarto miocardico acuto con esito letale.
Ricorrono per cassazione i difensori deducendo diversi motivi.
L’avvocato I. ne enuncia quattro.
1. Si premette che nel marzo del 1999, cioè circa nove mesi prima dell’evento mortale, lo Z. era stato sottoposto a controlli medici ai sensi del D.Lgs. 626/94 nell’ambito di un diverso rapporto di lavoro.
In tale occasione, sulla base di indagini mediche, non emerse l’esistenza di una pregressa cardiopatia.
Evidentemente il lavoratore non dichiarò il precedente episodio infartuale avendo necessità di svolgere attività lavorativa.
Alla luce di tale acquisizione si assume che la corte territoriale abbia applicato in modo errato l’art. 40 c.p..
Si rammenta che il sistema vigente accoglie la concezione condizionalistica della causalità fondata sul procedimento di eliminazione mentale: una condotta è condizione dell’evento se non può essere mentalmente eliminata senza che l’evento stesso venga meno.
Nel caso in esame si è in presenza di morte per cause naturali dovute all’evolversi di una malattia congenita; e non è possibile ritenere che senza l’avviamento al lavoro l’evento non si sarebbe verificato.
Depongono in tal senso le dichiarazioni del consulente della difesa.
Questi ha evidenziato che gli episodi infartuati si verificano nelle condizioni più disparate, in modo casuale e nella maggior parte dei casi addirittura alle prime ore dell’alba, durante il riposo.
In conseguenza non è possibile correlare la morte con lo sforzo fisico.
Lo sforzo induce un aumento del flusso sanguigno, ma l’infarto è dovuto alla rottura di una placca che non è collegata all’aumento del flusso.
L’esposizione della censura si conclude trascrivendo un breve passo del deposizione del consulente nel quale viene enunciato risolutamente che l’arresto cardiaco per infarto non è correlabile con lo sforzo.
2. Difetto di motivazione in ordine ad un punto essenziale della controversia.
La Corte non ha spiegato perché la condotta addebitata all’imputato sia stata ritenuta commissiva e non omissiva in contrasto con le tesi accusatoria e con le emergenze processuali.
Infatti l’accusa nei confronti del S. si sostanzia nel non aver impedito ad un malato di cuore di lavorare, creando così le condizioni che favorivano l’evento.
3. Illogicità della motivazione.
La Corte, si assume, ha motivato la sentenza di condanna riportando spezzoni di dichiarazioni dei due consulenti delle parti.
In tal modo ha realizzato una sorta di mosaico d’accusa usando come tasselli parti di frasi in sintonia con le tesi accusatoria.
Si tratta di operazione logica non accettabile poiché le posizioni vanno considerate nella loro interezza e nel logico susseguirsi delle argomentazioni.
4. Mancata assunzione di una prova decisiva.
Sia in primo grado che in appello i giudici non hanno mai ammesso il confronto tra il consulente del pubblico ministero e quello della difesa.
Si tratta di prova decisiva tesa a definire il rapporto di causa tra il lavoro all’evento mortale nel contrasto tra le due opposte posizioni.
Il difensore avvocato Ir. ha presentato distinto ricorso nel quale sono stati riportati in modo coincidente i quattro motivi sopra esposti.
E’ stato quindi enunciato un quinto motivo.
In esso vengono esposte distinte argomentazioni che, quanto ai profili rilevanti nella presente sede di legittimità, possono essere sintetizzate nei seguenti termini.
La pronunzia, si assume, basandosi sulla relazione del consulente del pubblico ministero, afferma che lo sforzo sia un fattore eziologicamente rilevante nella causazione dell’infarto.
In conseguenza sarebbe stato necessario accertare se l’operaio fosse stato effettivamente sottoposto in qualche occasione ad uno sforzo particolare.
Dal processo non emerge che la vittima abbia trasportato da solo carichi superiori a 30 kg.
Inoltre la presenza di più operai impegnati nel lavoro è stata logicamente considerata la prova della quantità del carico, senza considerare che essa era dimostrazione della equa distribuzione dei carichi e degli sforzi.
Si lamenta inoltre che la pronunzia non abbia chiarito l’incidenza del mancato controllo medico rispetto all’evento letale.
Dalla sentenza si apprende che lo Z. era stato sottoposto a controllo medico nel marzo 1999 dal quale non erano emerse pregresse patologie cardiache; che lo stesso non aveva fatto dichiarazioni sul suo stato di malattia nè alla ditta ove aveva precedentemente lavorava nè al suo nuovo datore di lavoro.
Le mansioni alle quali era da ultimo adibito erano del tutto omogenee a quelle svolte presso la ditta presso la quale aveva lavorato fino a qualche giorno prima di essere assunto dall’imputato.
In conseguenza era stato adempiuto il controllo sulle condizioni di salute dell’operaio che deve avere cadenza annuale; e l’imputato faceva affidamento su tale certificazione.
Inoltre, tra l’imputato e la vittima vi erano anni di pregressa conoscenza; e si era inoltre in presenza di un lavoro senza ritmi imposti.
La contemporanea presenza di questi presupposti esclude l’individuazione di estremi della colpa. L’evento non era prevedibile nè erano esigibili nei confronti dell’imputato comportamenti diversi.
La motivazione, si lamenta infine, è affetta da illogicità giacché è del tutto congetturale che l’eventuale visita medica avrebbe sicuramente determinato giudizio di inidoneità o comunque divieto di lavori si comportassero movimentazione manuale dei carichi.
Gli esposti motivi di ricorso sono infondati, eccezione fatta per quello afferente alla dimostrazione del nesso causale.
La pronunzia espone che la vittima era un operaio di 57 anni già infartuato ed affetto da una grave cardiopatia ischemica che avrebbe richiesto uno stile di vita particolarmente tranquillo.
Si dà diffusamente conto dell’esito dell’autopsia che ha rivelato una miocardiopatia ipertrofica su basi ischemica, miocardio-sclerosi, severa malattia ateromasica, con stenosi ed occlusione completa del tratto sub epicardico dei rami coronarici; aree sclerotiche nel miocardio del ventricolo sinistro; sclerosi delle pareti dei vasi coronarici con occlusione completa del lume di un vaso.
Il 23 dicembre 1999, evidenzia altresì la sentenza, il lavoratore fu impegnato dalle otto del mattino insieme ad altri tre operai nel trasloco degli arredi dell’ufficio dell’imputato.
Si trattava di compito assai impegnativo.
I mobili erano solo in parte smontati e ridotti in pezzi.
Il trasporto fu compiuto utilizzando un camion Iveco che ha una portata di 100 quintali e furono necessari due viaggi.
Inoltre il lavoro era gravoso: come riferito da uno dei testi, un operaio si trovava all’interno del camion, prendeva un pezzo e lo passava ad uno dei lavoratori che si trovavano in terra e che procedevano al trasporto.
Lo Z. fu colpito da infarto mentre si dirigeva verso il camion dopo aver portato a compimento il trasporto di un mobile.
L’evento mortale si verificò intorno alle 14.30.
Il lavoratore si accasciò improvvisamente al suolo senza dare segni di vita e giunse cadavere al pronto soccorso.
Secondo il consulente del pubblico ministero non vi sono dubbi sulla correlazione causale tra lo sforzo fisico cui lo Z. fu sottoposto nel corso dell’attività lavorativa e la morte. Al contrario, si evidenzia, il consulente della difesa si è mostrato perplesso sulla possibilità di ritenere il nesso causale tra sforzo fisico e l’evento letale, a meno che non si tratti di uno sforzo sovrumano. La pronunzia perviene alla conclusione che tali perplessità possono essere superate. E’ infatti verosimile che dopo circa sei ore di impegno fisico si fosse determinato uno sforzo imponente, avuto riguardo alle sue gravi condizioni di salute ed alla stanchezza accumulata.
Viene quindi evidenziato il rapporto tra la contestata violazione di disposizioni del D.Lgs. n. 626 del 1994 e l’evento mortale, analizzando le censure proposte dalla difesa. La stessa difesa ha sottolineato che il controllo medico compiuto il 6 marzo del 1999 non aveva evidenziato la patologia cardiaca, che era stata nascosta dal lavoratore. In proposito la Corte osserva che tale controllo riguardava le diverse mansioni di impacchettatore presso un tabacchificio all’epoca svolte dallo Z.. Peraltro il richiamato decreto legislativo prevede che la sorveglianza sanitaria deve verificare e costantemente assicurare l’idoneità del lavoratore alle specifiche mansioni cui è adibito. Nel comparto edilizio la movimentazione manuale dei carichi costituisce specifico fattore di rischio, tanto che i protocolli di medicina del lavoro prevedono tra l’altro come obbligatorio l’esame elettrocardiografico ed eventualmente una visita cardiologica a maggior ragione quando si tratti di soggetti che hanno superato il quarantesimo anno di età (la vittima ne aveva (omissis)). Pertanto anche dando per scontato che lo Z. in sede di visita preventiva non avrebbe dichiarato il pregresso infarto e la patologia cardiaca da cui è affetto, è da ritenersi che questa sarebbe stata comunque evidenziata dagli accertamenti e avrebbe sicuramente determinato uno giudizio di inidoneità o comunque di divieto di lavori che comportassero movimentazione manuale di carichi. A ciò la pronunzia aggiunge che l’imputato sapeva che il lavoratore aveva avuto in passato problemi di cuore come dallo stesso ammesso in giudizio. La sentenza espone tra l’altro che lo stesso consulente della difesa ha evidenziato che la patologia riscontrata avrebbe richiesto un intervento di bay-pass coronario nonché riabilitazione cardiovascolare in centro specializzato; e che in assenza di tali interventi non avrebbe mai autorizzato lo svolgimento di un’attività fisica intensa.
Alla luce di tale sintesi della pronunzia emerge che alcune delle censure sono palesemente infondate. In breve, la torte non ha per nulla ritenuto che si sia in presenza di una causalità commissiva, giacchè da sempre correlato il giudizio causale alla condotta omissiva costituita dalla mancata sottoposizione del dipendente alla prescritta visita medica. Neppure censurabile è l’utilizzazione delle informazioni scientifiche provenienti dai consulenti: l’esposizione cita non senza qualche dettaglio i tratti più rilevanti delle tesi sostenute, le compara e le analizza criticamente. Pure priva di sostegno e la tesi afferente alla mancata assunzione della prova decisiva costituita dal confronto tra i consulenti. I ricorrenti non spiegano sotto quale profilo tale confronto sarebbe risultato decisivo, mentre la Corte d’appello espone ragionevolmente che tale atto non appare necessario, atteso che i dubbi del consulente della difesa possono essere superati per ragioni che vengono analiticamente esposte e che riguardano soprattutto la dimostrazione della particolare gravosità del lavoro compiuto dalla vittima. Pure prive di sostegno sono le argomentazioni difensive concernenti l’inutilità della nuova visita medica, atteso che essa era stata già compiuta nell’ambito del precedente rapporto di lavoro. Sul punto, come emerge dalla sintesi che ne è stata sopra proposta, la sentenza evidenzia con argomentazione incontrovertibile che non si era in presenza di attività lavorative omogenee, e che la nuova richiedeva un esame elettrocardiografico che avrebbe sicuramente evidenziato la grave patologia da cui la vittima era affetta. Infine, pure priva di pregio è la censura inerente all’assenza di colpa, atteso che l’imputato ha imprudentemente omesso di richiedere l’indagine medica di cui si discute.
La sentenza, invece, non è sufficientemente persuasiva per ciò che riguarda la dimostrazione del nesso causale. Essa non tiene adeguatamente in conto l’insegnamento espresso dalla nota giurisprudenza delle Sezioni unite di questa Corte (S.U. 10 luglio 2002, Franzese).
Come è noto l’ordinamento accoglie la concezione condizionalistica della causalità cui è strettamente legato il giudizio logico controfattuale, necessario per riscontrare l’effettivo rilievo condizionante del fattore considerato: se dalla somma degli antecedenti si elimina col pensiero la condotta umana ed emerge che l’evento si sarebbe verificato comunque, allora essa non è condizione necessaria; se invece, eliminata mentalmente l’azione, emerge che l’evento non si sarebbe verificato, allora occorre ritenere che fra l’azione e l’evento esiste un nesso di condizionamento. Nei reati omissivi impropri il meccanismo controfattuale viene posto in opera immaginando la condotta mancata e verificando se la sua adozione avrebbe impedito la produzione dell’evento. Naturalmente il procedimento di eliminazione mentale, per poter funzionare, presuppone che siano già note le regolarità scientifiche od esperienziali che governano gli accadimenti oggetto d’interesse.
Nell’ambito dei reati commissivi mediante omissione tale indagine si rivela particolarmente problematica. Infatti, nei reati commissivi l’azione umana è una parte naturalisticamente reale, certa, della spiegazione dell’evento. E’ quindi chiaro quale parte degli accadimenti occorre sottrarre per porre in opera il giudizio controfattuale. Al contrario nei reati omissivi, dal punto di vista naturalistico, si è in presenza di un nulla, di un non facere. La condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l’evento deve essere rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo fondato precipuamente su ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso concreto. Alla stregua di tale base ricostruttiva occorre determinare se l’azione doverosa avrebbe avuto concrete chances di salvare il bene protetto o di annullare il rischio.
Per governare tale difficile indagine appare utile attingere all’insegnamento della richiamata pronunzia delle Sezioni unite. La Corte ha evidenziato l’autonomia dogmatica e la forte componente normativa della causalità omissiva, determinata dalla clausola di equivalenza di cui all’art. 40 c.p., dal copioso nucleo normativo concernente la disciplina della posizione di garanzia, infine, nei reati colposi, dagli specifici doveri di diligenza. Tuttavia tale autonomia in chiave normativa non giustifica l’erosione del paradigma causale nell’omissione verificatasi nella giurisprudenza di legittimità. Lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello del condizionale controfattuale: occorrerà quindi verificare se, qualora si fosse tenuta la condotta doverosa e diligente, il singolo evento di danno non si sarebbe verificato o si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Le incertezze applicative riscontrate in ambito giurisprudenziale riguardano i criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale, ma esse non mettono in crisi lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità, bensì la sua concreta verifica processuale.
Le Sezioni Unite propongono un modello dell’indagine causale che integra abduzione ed induzione, cioè l’ipotesi (l’abduzione) circa la spiegazione degli accadimenti e la concreta, copiosa caratterizzazione del fatto storico (l’induzione). Induzione ed abduzione s’intrecciano dialetticamente: l’induzione (il fatto) costituisce il banco di prova critica intorno all’ipotesi esplicativa. La prospettiva è quella di una ricostruzione del fatto dotata di alta probabilità logica, ovvero di elevata credibilità razionale. E’ stato peraltro sottolineato dalla stessa pronunzia, quanto all’identificazione del grado di conferma o probabilità logica dell’ipotesi ricostruttiva del fatto prospettata dall’accusa - che possa considerarsi “sufficiente” per vincere la presunzione d’innocenza e giustificare legalmente la condanna dell’imputato - che, poiché la condizione necessaria è requisito oggettivo della fattispecie criminosa, essa deve essere dimostrata con rigore secondo lo standard probatorio dell’“oltre il ragionevole dubbio” che il giudizio penale riserva agli elementi costitutivi del fatto di reato.
Il giudice è impegnato nell’operazione logico-esplicativa alla stregua dei percorsi epistemologici indicati dall’art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, quanto al ragionamento sull’evidenza probatoria, e dall’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per la doverosa ponderazione del grado di resistenza dell’ipotesi di accusa rispetto alle ipotesi antagoniste o alternative, in termini conclusivi di “certezza processuale” o di “alta probabilità logica” della decisione.
L’indicato impegnativo modello d’indagine è fondato su un rigoroso atteggiamento critico e su un serrato confronto tra l’ipotesi e i fatti: la congruenza di un’ipotesi ricostruttiva non dipende dalla coerenza formale, né dalla corretta applicazione di schemi inferenziali di tipo meramente deduttivo, bensì dal confronto con i fatti espressi da una situazione data, che possono confermarla o falsificarla.
In breve, la corroborazione dell’ipotesi è fondata sulla affidabilità delle informazioni scientifiche utilizzate; sull’evidenza probatoria, disponibile e coerente con l’ipotesi stessa; nonché, infine, sulla capacità di resistenza di questa rispetto alle contro-ipotesi. Solo in un quadro fattuale così profondamente investigato ed interrogato può esservi razionalità dell’ipotesi e la coerenza logico-argomentativa dell’enunciato diviene oggettiva dimostrazione di “verità” processuale. Insomma, solo la strenua ricerca delle più ampie informazioni scientifiche e probatorie e la rigorosa adesione ad esse può fondare il giudizio d’imputazione causale.
Tale ordine concettuale deve essere applicato anche nel giudizio controfattuale che, nei casi come quello in esame, riguarda l’effetto salvifico delle cautele omesse.
Applicando i principi esposti, l’affermazione del nesso causale può essere conseguita solo pervenendo alla argomentata conclusione che, con ragionevole certezza, l’adempimento costituito dalla visita medica di cui si è fin qui discusso avrebbe evitato l’evento letale nella situazione in cui si è concretamente verificata. A tale questione la Corte d’appello non da una risposta compiuta. Si afferma infatti che nelle condizioni date un forte sforzo costituisce una controindicazione ed un fattore di rischio rilevantissimo; ma non si esclude in modo argomentato e persuasivo che, considerata la gravità della patologia, l’infarto letale potesse scatenarsi indipendentemente dall’impegnativo lavoro compiuto. E’ cioè mancata una indagine controfattuale fondata su una compiuta analisi di tutte le circostanze concretamente rilevanti e su informazioni scientifiche affidabili. La Corte adombra, senza svilupparle ed utilizzarle, alcune utili informazioni come ad esempio quelle esposte dallo stesso consulente della difesa e che riguardano le misure terapeutiche che avrebbero potuto essere adottate nel caso in cui la grave patologia fosse stata diagnosticata all’esito della visita medica: si accenna a terapie mediche, riabilitative, chirurgiche. Tali questioni, tanto più se adeguatamente approfondite, sembrano astrattamente in grado di fornire, unitamente a tutte le altre, un contributo ai fini della risoluzione dell’interrogativo in ordine al ruolo salvifico della discussa visita medica.
In conclusione il giudice di merito dovrà dar corso all’indicato giudizio controfattuale acquisendo, ove occorra, le informazioni scientifiche necessarie; e ponderando tutte le circostanze rilevanti.
L’interrogativo a cui dovrà darsi risposta è se, a seguito degli esami medici, considerando anche tutte le misure terapeutiche che sarebbero state da attendersi nelle circostanze date, sarebbe stato evitato con ragionevole certezza l’evento concretamente verificatosi.
A tal fine l’impugnata sentenza va annullata con rinvio.
P. Q. M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli.
Cassazione Penale, Sezione Terza, 2 luglio 2008 n. 26539 - Responsabilità del datore di lavoro – non sussiste - Norme di riferimento: art. 4 comma 5 lettera c) D. Lgs. 626/94, ora art. 18 c. 1 lett. c) D. Lgs. 81/08 |
Tale sentenza ha ad oggetto le modalità di attuazione dell’art. 4 comma 5 lettera c) del D.Lgs. 626/95, ora sostituito dall’art. 18 comma 1 lettera c) del D.Lgs. 81/08, che pone l’obbligo del datore di lavoro di tenere conto, nell’affidamento dei compiti ai lavoratori, delle capacità e condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e sicurezza.
La Cassazione precisa che tale valutazione, che deve porsi come preliminare rispetto all’attribuzione di un compito al lavoratore, deve essere affidata specificatamente al medico competente, figura che è in possesso della idonea professionalità per poter svolgere adeguatamente tale verifica.
La Suprema Corte sottolinea, inoltre, che la violazione di tale norma integra un reato di natura permanente (e non istantanea) che cessa nel momento in cui il datore di lavoro si attiva per porre in essere tale verifica, anche dopo l’inizio della attività lavorativa, in accordo con la volontà del legislatore che ha previsto che a seguito delle visite preventive l’idoneità del lavoratore continuasse ad essere verificata mediante le visite periodiche (v. art. 16 D.Lgs. 626/94, ora art. 41 del D.Lgs. 81/08). Ciò “in quanto, l’interesse dello Stato alla effettiva assunzione delle misure di salvaguardia della salute del lavoratore non è limitato alla fase che precede l’assegnazione dei compiti ma perdura per l’intero rapporto”.
Nella fattispecie, il Presidente del Consiglio di Amministrazione e consigliere di una cooperativa, è stato condannato dal Tribunale alla pena della ammenda di euro 1.600 per avere violato la norma predetta non segnalando al medico competente la necessità di effettuare gli accertamenti sanitari ad alcuni lavoratori neoassunti prima di affidare loro i compiti da svolgere.
Nel confermare la condanna al datore di lavoro, la Cassazione fornisce significative indicazioni sulla figura del medico competente, sottolineando che “è a questa figura che il datore di lavoro deve rapportarsi per le finalità indicate dall’articolo 4, comma 5, lettera c)”.
E prosegue: “come si rileva dalla formulazione dell’articolo 16 che, dopo avere premesso al comma 1 che la sorveglianza sanitaria è effettuata nei casi previsti dalla normativa vigente, inequivocabilmente stabilisce al comma successivo che la sorveglianza di cui al comma 1 è effettuata dal medico competente e comprende:
a) accertamenti preventivi intesi a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui i lavoratori sono destinati, ai fini della valutazione della loro idoneità alla mansione specifica;
b) accertamenti periodici per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica”.
Tutto ciò fermo restando che il medico competente è nominato in azienda solo allorché vi siano lavoratori esposti a rischi per i quali è necessaria la sorveglianza sanitaria, circostanza che ricorreva nella fattispecie.
Secondo la Suprema Corte “è chiaro, dunque, l’intento del legislatore di anticipare la tutela del lavoratore stesso sanzionando con l’articolo 89, lettera b) l’inadempimento dell’obbligo indipendentemente dalla idoneità effettiva del lavoratore a rivestire la mansione specifica o a svolgere la tipologia dei compiti assegnatigli. E dunque, nei casi in cui è richiesta, la funzione del medico competente non può essere altrimenti surrogata”.
L’art. 4 comma 5 lettera c) del D.Lgs. n. 626/94, inoltre, “contempla senza limitazione temporale alcuna l’obbligo per il datore di lavoro di affidare i compiti ai lavoratori tenendo conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza”. Tale norma “va evidentemente coordinata con quella dell’articolo 16 che ai fini della valutazione della idoneità alla mansione specifica dei lavoratori prevede che la sorveglianza sanitaria si eserciti non solo mediante accertamenti preventivi intesi a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui i lavoratori sono destinati (articolo 16 comma 2, lettera a), ma anche attraverso gli accertamenti periodici per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione specifica (articolo 16, comma 2, lettera b)”.
In conclusione, “appare evidente, pertanto, che la sorveglianza sanitaria non è circoscritta alla fase che precede l’assegnazione alle mansioni del dipendente. Si deve, pertanto, necessariamente concludere, a parere del Collegio, per la natura permanente del reato perdurando l’obbligo della sorveglianza sanitaria anche nel corso dello svolgimento delle mansioni e, quindi, la condotta lesiva dell’interesse protetto sino a quando il datore di lavoro non ottemperi all’obbligo di procedere agli indicati accertamenti”.
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