Mobbing e Straining nelle sentenze civili e penali dell’ultimo anno
Come noto, la giurisprudenza di legittimità sia civile che penale in materia di mobbing e straining è in costante evoluzione.
Si riporta di seguito - senza pretese di esaustività - una breve selezione di principi giurisprudenziali espressi dalla Corte di Cassazione Civile e Penale in materia durante l’ultimo anno (luglio 2018-luglio 2019), a partire dalle più recenti fino alle più risalenti.
Il mobbing può ricorrere anche se il lavoratore ha atteggiamenti ostili e la conflittualità è reciproca: Cassazione Civile, Sez. Lav., 12 luglio 2019 n.18808
Con una interessante pronuncia di questo mese la Suprema Corte ha stabilito che “non è vero che per configurare il mobbing (o lo straining) quali comportamenti vessatori nei confronti del dipendente sia necessario che non ricorra conflittualità reciproca.”
Secondo la Corte, “infatti, pur a fronte (in via di mera ipotesi) di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non è certamente legittimato ad indursi a comportamenti vessatori. Egli può infatti senza dubbio esercitare i propri poteri direzionali ex art.2104 c.c., comma 2, come anche, nel caso, i poteri disciplinari, ma nei limiti stabiliti dalla legge e comunque nel rispetto di un canone generale di continenza, espressivo dei doveri di correttezza propri di ogni relazione obbligatoria, tanto più se destinata ad incidere continuativamente sulle relazioni interpersonali.”
Un canone, quest’ultimo, “che è certamente e comunque superato allorquando i comportamenti datoriali - ovverosia proprio della parte che nell’ambito del rapporto si pone in posizione di supremazia in quanto titolare del potere di dirigere i propri dipendenti - ricevano una qualificazione in termini di vessatorietà.”
Gli elementi costitutivi del mobbing e dello straining e le fonti della responsabilità: Cassazione Civile, Sez. Lav., 4 giugno 2019 n.15159
Secondo questa sentenza di Cassazione del mese scorso, “gli orientamenti oramai consolidati di questa Corte sono […] nel senso che:
- è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti dannosi interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n.12437; Cass. 10 novembre 2017, n.26684);
- è configurabile lo straining, quale forma attenuata di mobbing, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n.18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n.7844), ma comunque con effetti dannosi rispetto all’interessato”.
Ai fini dell’affermazione della responsabilità, inoltre, la Corte da un lato ricorda che è sufficiente l’elemento soggettivo della colpa e dall’altro ribadisce quale sia il discrimine che separa l’area della responsabilità dall’area della non responsabilità.
Secondo i più recenti orientamenti della Cassazione, infatti, “è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento - imputabile anche solo per colpa - che si ponga in nesso causale con un danno alla salute (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass.20 giugno 2018, n.16256; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass.20 aprile 2018, n.9901), fermo restando che si resta al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass.29 gennaio 2013, n.3028) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n.4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n.26972).”
Questa recente pronuncia ricorda poi una delle caratteristiche più peculiari del mobbing.
Infatti, secondo la Corte, “nelle prime due situazioni (mobbing e straining)” sussistono “fonti di responsabilità che possono derivare non solo da inadempimenti, ma anche da comportamenti interni al rapporto di lavoro che, se singolarmente valutati, potrebbero anche essere astrattamente legittimi o relativi ad altrimenti normali conflitti interpersonali, rispetto ai quali è l’intenzionalità (vessatoria o stressogena) a qualificare l’accaduto come illecito contrattuale diretto (ove il datore di lavoro sia autore o partecipe della dinamica vessatoria) o indiretto (se siano altri lavoratori a tenere il comportamento illegittimo ed al datore si possa imputare di non averlo impedito).”
Quando il mobbing integra il reato di maltrattamenti in famiglia (art.572 cod.pen.). La para-familiarità, l’irrilevanza del numero dei dipendenti e la rilevanza dell’atteggiamento “padronale” nella gestione: Cassazione Penale, Sez.IV, 4 settembre 2018 n.39920
Come noto, il reato di maltrattamenti in famiglia previsto dall’art.572 del codice penale, tradizionalmente concepito in un contesto familiare, è stato nel tempo esteso“anche a rapporti di tipo diverso, di educazione ed istruzione, cura, vigilanza e custodia nonché a rapporti professionali e di prestazione d’opera.”
Con riferimento specifico a quest’ultima categoria di rapporti, la “Suprema Corte ha riconosciuto la possibilità di sussumere nella fattispecie dei maltrattamenti commessi da soggetto investito di autorità in contesto lavorativo la condotta di cd. mobbing posta in essere dal datore di lavoro in danno del lavoratore, quale fenomeno connotato da una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti reiterati nel tempo convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, aventi dunque carattere persecutorio e discriminatorio (Sez. 5, n. 33624 del 09/07/2007, P.C. in proc. De Nubblio, Rv. 237439).”
Affinché la condotta persecutoria del datore di lavoro in danno del dipendente possa integrare il reato previsto dall’art.572 cod. pen., “è indispensabile che il rapporto interpersonale sia caratterizzata dal tratto della “para-familiarità”, dal momento che il reato di maltrattamenti in famiglia all’interno del codice penale rientra “nel titolo dei delitti in materia familiare”.
Di conseguenza, “ai fini della integrazione del reato, non è sufficiente la sussistenza di un generico rapporto di subordinazione/sovra ordinazione, ma è appunto necessario che sussista il requisito della para-familiarità, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità.”
Infatti - spiega la Cassazione Penale - “se così non fosse ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro dovrebbe, per ciò solo, configurare una sorta di comunità para-familiare, idonea ad imporre la qualificazione, in termini di violazione dell’art.572 c.p., di condotte che, pur di eguale contenuto ma poste in essere in un contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile con evidente profilo di irragionevolezza del sistema (Sez.6, n.685 del 22/09/2010, P.C. in proc. C., Rv. 249186; Sez.6, n.12517 del 28/03/2012, Rv.252607; Sez.6, n.24642 del 19/03/2014, Pg in proc. G, Rv. 260063).”
Ma da quali elementi concreti - viene da domandarsi - può essere dedotta la para-familiarità che è un requisito necessario affinché il mobbing possa integrare il reato di maltrattamenti in famiglia?
Secondo la Cassazione, “la natura (o meno) para-familiare di un rapporto non può essere desunta dal dato - meramente quantitativo - costituito dal numero dei dipendenti presenti nel contesto lavorativo ove siano commesse le condotte in ipotesi maltrattanti, dovendo essa piuttosto fondarsi sull’aspetto qualitativo, id est sulla effettiva natura della relazione intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore.”
Dunque “si potranno pertanto ravvisare gli estremi della para familiarità allorché ci si trovi in presenza di una relazione interpersonale stretta e continuativa, connotata da una consuetudine o comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare (come nel caso della collaborazione domestica svolta in ambito familiare) o comunque connotata da un rapporto di soggezione e subordinazione del dipendente rispetto al titolare, il quale gestisca l’azienda con atteggiamento “padronale” e, dunque, in modo autoritario, sì da innestare quella dinamica relazionale “supremazia – subalternità” che si ritrova nelle relazioni fra soggetti che si trovino ad operare su piani diversi.”
Certamente - prosegue la Corte - “è vero che una relazione di siffatta natura difficilmente potrà essere configurata in realtà aziendali o altri contesti lavorativi di notevoli dimensioni, in cui i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono ad essere più superficiali e spersonalizzati e, tuttavia, non può escludersi che non possano venirsi a creare dinamiche para-familiari nell’ambito dei in singoli reparti e, dunque, nei rapporti fra il capo reparto ed il singolo addetto. In caso di contesti lavorativi piccoli o medi, la valutazione sul punto non potrà invece prescindere da una attenta indagine sulle effettive dinamiche relazionali intercorrenti fra titolare e lavoratore, sì da acclarare la sussistenza o meno di uno stato di soggezione nei termini sopra delineati.”
La distinzione tra mobbing e straining e la rilevanza delle diverse qualificazioni processuali: Cassazione Civile, Sez. Lav., 10 luglio 2018 n.18164
In questa sentenza dell’anno scorso la Cassazione precisa che“questa Corte ha già affermato, con indirizzo cui il Collegio intende dare continuità, che lo straining altro non è se non una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’art.2087 cod. civ., norma di cui da tempo è stata fornita un’interpretazione estensiva costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt.32, 41 e 2 Cost. (v. Cass. 4 novembre 2016, n. 3291 e la recente Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977)”.
A fini processuali (ma anche di inquadramento sistematico delle due fattispecie), la sentenza sottolinea che “nelle decisioni citate è stato precisato che non integra violazione dell’art.112 cod. proc. civ. l’aver qualificato la fattispecie come straining mentre in ricorso si sia fatto riferimento al mobbing, in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (sul punto, la già citata Cass. n.3291/2016 e la più recente Cass. 29 marzo 2018, n.7844)”.
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro
Corte di Cassazione Civile, Sez. Lav. – Sentenza n. 18164 del 10 luglio 2018 - Mobbing e straining
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Rispondi Autore: Paolo Giuntini - likes: 0 | 02/08/2019 (23:05:54) |
Grazie per la trattazione della materia estremamente chiara ed esauriente. |