Rischi interferenziali: la segregazione delle aree di lavoro
È un problema, quello che viene trattato in questa sentenza, molto diffuso che si presenta ogni qualvolta in uno stesso cantiere vengono a trovarsi a operare diverse imprese edili e cioè quello della separazione delle aree di lavorazione al fine di evitare di invadere le zone di operazione di altre imprese. L’infortunio che riguarda questa sentenza è infatti avvenuto per la interferenza fra una ditta appaltatrice di lavori di ristrutturazione di un magazzino e una subappaltatrice alla quale la stessa aveva affidata la fornitura e il montaggio di una struttura metallica. Il giorno dell’infortunio i dipendenti della ditta subappaltatrice stavano trasportando all’interno del magazzino, con un carrello elevatore, alcune longarine metalliche della lunghezza ognuna di dieci metri, che sarebbero state utilizzate per realizzare un soppalco, allorquando un dipendente della stessa ditta, che stava collaborando da terra e dando indicazioni ai colleghi, è stato schiacciato tra una ruota di un sollevatore a forche manovrato da un dipendente della ditta appaltatrice e una delle longarine subendo delle gravi lesioni.
Dell’infortunio erano stati chiamati a rispondere e condannati per questo nei due primi gradi di giudizio il coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione e il datore di lavoro di fatto ex art. 299 del D. Lgs. n. 81/2008 del lavoratore infortunato, il primo per avere violato l’art. 92, comma 1, lett. a) del D. Lgs. n. 81/2008 e il secondo per la violazione dell’art. 100 dello stesso decreto legislativo per non essersi attenuto alle prescrizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento (PSC) e recepite anche nel piano operativo di sicurezza (POS). Secondo il PSC, infatti, le aree di pertinenza delle singole imprese dovevano essere “segregate” e non semplicemente separate da un nastro come nel caso in esame. Entrambi gli imputati hanno ricorso alla Corte di Cassazione avanzando una serie di motivi ma la suprema Corte, avendo ritenuto che i giudici di merito si fossero attenuti strettamente ai principi e agli indirizzi forniti in merito dalla giurisprudenza di legittimità, ha rigettato i ricorsi e ha condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Il fatto e l’iter giudiziario.
La Corte di Appello ha riformato, quanto al trattamento sanzionatorio, la sentenza pronunciata dal Tribunale con la quale un coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione e il datore di lavoro di una ditta subappaltatrice sono stati ritenuti responsabili del reato di cui agli artt. 590, commi 2 e 3 cod. pen. in danno di un lavoratore dipendente di quest’ultima. Il procedimento aveva avuto ad oggetto un infortunio sul lavoro verificatosi in un magazzino di proprietà della società committente ove erano in corso lavori di ristrutturazione che avevano viste coinvolte più imprese.
Secondo la ricostruzione fornita dai giudici di merito, i lavori erano stati affidati a una ditta appaltatrice che aveva subappaltato la fornitura e il montaggio della carpenteria metallica a un’altra ditta. Il piano di sicurezza e coordinamento predisposto dal coordinatore per la sicurezza nella fase della progettazione prevedeva che le aree di lavoro delle diverse imprese dovessero essere separate in modo da evitare interferenze tra le lavorazioni. Il giorno dell'infortunio i dipendenti della ditta subappaltatrice dovevano trasportare all'interno del magazzino alcune longarine metalliche lunghe 10 metri che sarebbero state impiegate per realizzare un soppalco. Le longarine dovevano essere collocate nella zona sud del capannone, destinata alla subappaltatrice, ed erano portate all'interno della struttura attraverso una porta presente sul lato sud; nella zona nord, invece, lavorava la dita appaltatrice i cui dipendenti utilizzavano una porta situata sulla parete nord. Le aree operative assegnate alle due ditte erano delimitate da un nastro bianco e rosso. Il trasporto delle longarine all'interno del capannone avveniva con carrelli elevatori che prelevavano e trasportavano una longarina alla volta. Il lavoratore infortunatosi, dipendente della ditta subappaltatrice, insieme a un collega, collaborava da terra accompagnando i carrelli nel percorso e dando indicazioni ai colleghi. Mentre svolgeva questa attività era stato urtato da un sollevatore a forche, condotto da un dipendente della ditta appaltatrice che, procedendo in retromarcia, aveva invaso l'area del capannone assegnata all’altra ditta. Udite le urla, l’operatore del sollevatore, si era fermato evitando di travolgere il lavoratore ma la gamba sinistra dello stesso era rimasta schiacciata tra la ruota del mezzo e una longarina accanto alla quale egli si trovava, riportando lesioni dalle quali era derivata una malattia durata più di quaranta giorni.
Il coordinatore per la sicurezza in fase esecutiva era stato chiamato a rispondere dell’accaduto per non avere provveduto a verificare, con opportune azioni di coordinamento e controllo, la corretta attuazione da parte delle imprese esecutrici delle disposizioni del PSC in base al quale, terminato l'allestimento del cantiere, le aree di pertinenza delle singole imprese dovevano essere "segregate" e non semplicemente separate da un nastro. I giudici avevano dunque ritenuto che egli avesse causato l'infortunio per colpa specifica consistita nella violazione dell'art. 92, comma 1, lett. a) del D. Lgs. 9 aprile 2008 n. 81. Al datore di lavoro, ex art. 299 D. Lgs. n. 81/2008, i giudici di merito avevano addebitata invece la violazione dell'art. 100 del D. Lgs. n. 81/2008 perché, presente in cantiere e concretamente ingeritosi nella materia della sicurezza del lavoro, non aveva dato attuazione a quanto previsto nel PSC e nel POS e non aveva assicurato la segregazione dell'area del cantiere destinata alle lavorazioni della propria impresa. Secondo i giudici di merito, infatti, se le aree di cantiere assegnate alle diverse ditte non fossero state delimitate da un nastro ma segregate con predisposizione di barriere rigide (come era previsto dal PSC), lo sconfinamento nell'area di competenza della ditta subappaltatrice da parte del sollevatore non sarebbe stato possibile e l'infortunio non si sarebbe verificato.
I ricorsi per cassazione e le motivazioni.
Entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte di Appello. Il CSE nel suo ricorso ha sostenuto che la ricostruzione fornita dai giudici di merito sarebbe stata frutto di una errata interpretazione delle disposizioni del PSC che non imponeva di installare in ogni caso rigide barriere di separazione tra le aree assegnate ad imprese diverse. Tale necessità non esisteva nel caso di specie perché, in ragione delle dimensioni del capannone e della natura delle attività che erano state programmate quel giorno, il rischio interferenziale era modesto e, di conseguenza, era sufficiente segnare il confine tra le aree di cantiere con un nastro bicolore, come in concreto era stato fatto.
Nel caso in esame l'installazione di barriere rigide, secondo il ricorrente, non era necessaria perché le due imprese operavano all'interno di un capannone di grandi dimensioni, a notevole distanza l'una dall'altra; il rischio concretizzatosi, invece, era stato una conseguenza dell'estemporanea decisione di spostare una betoniera (che, comunque, era posta a nove metri di distanza dal confine tra le due aree) e della maldestra esecuzione della manovra retromarcia, realizzata dall’operatore, in modo tale da invadere l'area dì competenza della ditta subappaltatrice, una condotta questa che aveva attivato un rischio eccentrico rispetto a quelli che il coordinatore per la sicurezza nella fase esecutiva era chiamato a governare.
La difesa dell’imputato ha sostenuto altresì che al coordinatore per la sicurezza in fase esecutiva era stato attribuito un dovere di puntuale controllo delle singole attività lavorative che è invece demandato ad altre figure operative (datore di lavoro, dirigente, preposto). Secondo la stessa, tenuto conto dei compiti di "alta vigilanza" che la legge attribuisce al coordinatore per la sicurezza nella fase esecutiva, l’imputato non aveva altro obbligo che quello di verificare l'esistenza di una separazione tra l'area di lavoro delle due imprese; dall'istruttoria dibattimentale era emerso infatti che la mattina dell’infortunio la separazione (costituita da un nastro bianco e rosso) era installata. In sintesi, secondo la difesa, il rischio concretizzatosi era stato determinato da una attività non programmata (lo spostamento di una betoniera) della quale il coordinatore per la sicurezza nella fase esecutiva non era stato informato e in relazione alla quale egli non poteva assolutamente intervenire.
Il ricorso proposto dalla difesa nell'interesse del datore di lavoro di fatto è stato articolato su varie motivazioni. La stessa, con un primo motivo, ha sostenuto che l’operatore alla guida del sollevatore, dipendente della ditta appaltatrice, si era avvicinato all’area di cantiere destinata all’altra impresa per spostare una betoniera, che quella attività non era stata programmata e che l’operatore non era stato incaricato di svolgerla dal preposto sicché la delimitazione tra le aree di cantiere realizzata con un nastro bianco e rosso era più che sufficiente allo scopo. In sintesi, la difesa ha sostenuto che in relazione alle lavorazioni programmate per quel giorno, non v'era alcun rischio di interferenza tra le due ditte sicché il datore di lavoro non doveva intervenire per prevenirlo.
Il difensore ha osservato, altresì, che il cantiere della ditta subappaltatrice era ancora in fase di allestimento perché i dipendenti della società stavano portando all'interno del capannone (nell'area loro assegnata) le traversine di metallo che avrebbero dovuto essere usate per la realizzazione di un soppalco e ha ricordato che, secondo l'interpretazione del PSC fornita dalla sentenza impugnata, nella fase di allestimento del cantiere le divisioni con nastri erano consentite, mentre nella fase successiva doveva essere realizzata una vera e propria segregazione delle aree assegnate alle diverse ditte. Ha osservato ancora che, come si evince dalla lettura del PSC, il compito si segregare le aree di cantiere destinate alle diverse ditte al fine di prevenire il rischio interferenziale era affidato al preposto dell'impresa affidataria che aveva curato l'apposizione del nastro bicolore e che, dopo l'infortunio, aveva provveduto a collocare le transenne rigide. La mancanza di barriere fisse non avrebbe comunque determinato l'evento se il manovratore del sollevatore non avesse proceduto in retromarcia fino ad invadere, senza necessità, l'area di cantiere riservata alla ditta subappaltatrice e ciò era avvenuto perché la manovra non era stata eseguita con la doverosa cautela. Lo stesso non si era assicurato che alle spalle del veicolo da lui condotto non vi fosse nessuno né è risultato che avesse azionato i segnali sonori e luminosi che avvertono del movimento di un carrello elevatore.
Il difensore del ricorrente ha riferito altresì che, come documentato nel corso del giudizio, il Consiglio di amministrazione della società subappaltatrice aveva attribuito il ruolo di datore di lavoro ai sensi del D. Lgs. n. 81/08 ad altra persona alla quale era stata affidata la gestione della sicurezza dei luoghi di lavoro. Secondo la difesa, infatti, i giudici di merito hanno attribuito all’imputato, che era il presidente del CdA e il legale rappresentante della società, funzioni di datore di lavoro di fatto ai sensi dell'art. 299 D. Lgs. n. 81/2008 sulla base di un vero e proprio travisamento delle deposizioni di alcuni testi i quali avevano dichiarato di essersi rapportati con lui e ciò perché era presente in cantiere per gestire i rapporti commerciali con i clienti e non avevano detto di essersi rapportati con lui per questioni relative alla materia della sicurezza sul lavoro. L’imputato si era impegnato soltanto a trasmettere il PSC al datore di lavoro, senza sostituirsi ad esso nella valutazione dei rischi e nella individuazione delle modalità di svolgimento dei lavori; non aveva altresì predisposto il POS né aveva provveduto a nominare il preposto di cantiere,
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione non ha accolto nessuno dei motivi di ricorso. La stessa ha chiarito che, come concordemente riferito dai giudici di merito, il PSC prevedeva in più punti che le diverse aree di lavoro delle imprese coinvolte nella ristrutturazione del capannone dovessero essere segregate e segnalate. Il PSC infatti prevedeva:
- delimitazioni, indicate come "segregazioni", di aree "tanto ampie da contenere ingombri necessari per eseguire lavori che comportassero rischi non compatibili con altre attività";
- la segregazione tra la zona in cui sarebbe proseguito lo svolgimento dell'attività del supermercato e le zone di ristrutturazione edilizia, con individuazione, in queste ultime, di specifici settori operativi di intervento "segregati e indipendenti tra loro".
La sentenza impugnata ha chiarito, secondo la suprema Corte, che, come specificato nel capitolo del PSC dedicato alle modalità organizzative, prima di iniziare i lavori, il coordinatore per la sicurezza nella fase esecutiva avrebbe dovuto indicare "le modalità di segregazione degli spazi assegnati all'interno delle aree del cantiere" e le "incompatibilità tra lavorazioni". Per poter rilevare tali incompatibilità, inoltre, sulla base del PSC, il coordinatore doveva essere portato a conoscenza "degli interventi di manutenzione straordinaria, degli avvicendamenti ingresso e termine delle lavorazioni, dell'inizio delle lavorazioni, soprattutto quelle identificate come ad alto rischio", così da poter "verificare periodicamente il rispetto delle prescrizioni e compatibilità della relativa parte di PSC". La delimitazione poteva avvenire anche "con un nastro bicolore", ma solo "durante la predisposizione delle segregazioni e indicazioni" che era comunque "necessaria per ogni singola zona operativa".
Muovendo da queste premesse le sentenze di primo e secondo grado avevano ritenuto che, terminata la fase dell'allestimento, non fosse più possibile delimitare le aree di cantiere facendo uso di un semplice nastro, tanto più che, secondo il PSC, queste aree non dovevano essere semplicemente delimitate, ma "segregate". Le premesse interpretative, quindi, secondo la Sezione IV, cui i giudici di merito avevano fatto riferimento nel valutare se le prescrizioni del PSC fossero state rispettate, non potevano dirsi incomplete, ma coerenti col testo del documento, non sono apparse illogiche e non sono state efficacemente smentite nei motivi di ricorso.
La suprema Corte ha sottolineato inoltre che la segregazione delle aree doveva essere compiuta in modo da garantire l'esecuzione dei lavori in sicurezza e l'ampiezza dell'area destinata ad ogni impresa doveva essere funzionale alla lavorazione in corso (l'area, infatti, doveva essere abbastanza ampia "da contenere ingombri necessari per eseguire lavori che comportassero rischi non compatibili con altre attività"); che nella fase di allestimento del cantiere l'impresa affidataria poteva delimitare le aree con nastro bicolore, ma la segregazione, per espressa previsione del PSC, doveva essere eseguita (e concordata col CSE) prima che i lavori avessero inizio.
A ciò deve aggiungersi che il PSC attribuiva alla ditta appaltatrice il compito di segregare le aree affidate alle diverse ditte, ma non per questo i datori di lavoro delle imprese esecutrici potevano disinteressarsi di tale adempimento. Come è risultato dalla sentenza impugnata infatti, ha sottolineato la Sezione IV, il POS della ditta subappaltatrice (che doveva essere coerente con le previsioni del PSC) prevedeva la segregazione delle aree di lavoro. Compiendo una scelta particolarmente rigorosa, il PSC aveva stabilito che la delimitazione delle aree con nastro bicolore fosse possibile solo nella fase di allestimento del cantiere. Una volta iniziate le lavorazioni, le aree assegnate a imprese diverse dovevano essere "segregate" e l'uso di tale espressione rende evidente che quando, come nel caso in esame, si trattava di aree confinanti, non era sufficiente segnalare il confine, ma era necessario rendere quelle aree reciprocamente inaccessibili. I due imputati, infatti, erano stati chiamati a rispondere dell'infortunio per non aver osservato rispettivamente il CSE l'art. 92, comma 1, lett. a) e l'art. 100, comma 3, de D. Lgs. n. 81/2008 e per non aver verificato l'applicazione, da parte delle imprese esecutrici, delle disposizioni contenute nel PSC e il secondo per non aver attuato quanto previsto nel PSC e nel POS.
Con riferimento all’attività del coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione la suprema Corte ha ricordato che la giurisprudenza è concorde nel ritenere che allo stesso spettino "compiti di "alta vigilanza", consistenti:
a) nel controllo sulla corretta osservanza, da parte delle imprese, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento, nonché sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell'incolumità dei lavoratori;
b) nella verifica dell'idoneità del piano operativo di sicurezza (POS) e nell'assicurazione della sua coerenza rispetto al piano di sicurezza e coordinamento; c) nell'adeguamento dei piani in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, verificando, altresì, che le imprese esecutrici adeguino i rispettivi POS". Nell'affermare la penale responsabilità del coordinatore per l’esecuzione per non aver vigilato sulla corretta attuazione del PSC e non aver imposto la segregazione delle aree del capannone rispettivamente destinate alle due imprese i giudici di merito avevano fatto quindi buon governo di questi principi.
Si deve inoltre ricordare, ha così proseguito la suprema Corte, che, come la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato, il coordinatore per la fase esecutiva opera attraverso procedure e ha un potere - dovere di intervento diretto solo quando constata una situazione di pericolo grave ed imminente (nel qual caso, ai sensi dell'art. 92, comma 1, lett. f), del D. Lgs. n. 81/2008, può sospendere le singole lavorazioni); ma tra i suoi compiti vi è quello di identificare "momenti topici delle lavorazioni" e predisporre "attività che assicurino rispetto ad esse l'attuazione dei piani "attraverso la mediazione dei datori esecutori, perciò " non può esimersi dal prevedere momenti di verifica della effettiva attuazione di quanto esplicato e previsto", citando come precedente il contenuto della sentenza della Sezione IV n. 3288 del 23/01/2017, pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo " La vigilanza del coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione".
A tal punto la Corte di Cassazione ha preso in esame i motivi del ricorso proposto nell'interesse del datore di lavoro ex art. 299 del D. Lgs. n. 81/2008. Circa l’osservazione fatta dall’imputato secondo le quali l'apposizione di barriere fisse avrebbe comportato pericoli per la sicurezza dei lavoratori costretti a movimentare lunghe travi di metallo nelle adiacenze di barriere fisse, la suprema Corte ha ricordato che le aree di cantiere assegnate a ciascuna impresa non dovevano solo essere segregate per evitare rischi interferenziali, ma anche essere abbastanza ampie da contenere gli ingombri necessari per l'esecuzione dei lavori sicché, ove l'area assegnata alla società non fosse stata sufficiente a operare in sicurezza, sarebbe stato possibile (e doveroso) attivarsi per ottenerne l'ampliamento. Né alcuna importanza era da dare all’argomento secondo il quale il cantiere della ditta subappaltatrice era in fase di allestimento sicché era possibile procedere ad una mera delimitazione con nastro bicolore bastando a tal proposito osservare che, trasportando nel capannone le travi metalliche che avrebbe dovuto installare, l’impresa aveva dato inizio alle lavorazioni ricevute in appalto.
In merito poi a quanto sostenuto dalla difesa secondo cui la condotta dell’operatore dell’attrezzatura avrebbe costituita una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento essendo stata imprevedibile e inevitabile nonché idonea ad escludere la responsabilità dell'imputato sotto il profilo della causalità oggettiva e, comunque, sotto il profilo della causalità della colpa, la suprema Corte ha rammentato in proposito che, per giurisprudenza costante, un comportamento, anche avventato, del lavoratore, se realizzato mentre egli è dedito al lavoro affidatogli, può essere invocato come imprevedibile o abnorme solo se il datore di lavoro ha adempiuto tutti gli obblighi che gli sono imposti in materia di sicurezza sul lavoro.
A questo proposito, la suprema Corte ha ricordato che la giurisprudenza più recente ha opportunamente sottolineato che "in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia". Ponendosi in questa prospettiva, è stato affermato che il comportamento negligente, imprudente e imperito tenuto dal lavoratore nello svolgimento delle mansioni a lui affidate può costituire concretizzazione di un "rischio eccentrico", con esclusione della responsabilità del garante, solo se questi ha posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente, così che, solo in questo caso, l'evento verificatosi potrà essere ricondotto alla negligenza del lavoratore, piuttosto che al comportamento del garante.
Con riferimento, infine, alle affermazioni fatte dalla difesa dell’imputato secondo le quali la qualifica di datore di lavoro gli era stata erroneamente attribuita, ai sensi dell'art. 299 del D. Lgs. n. 81/2008, travisando il contenuto delle testimonianze assunte nel corso del giudizio, atteso che tale qualifica era stata formalmente conferita a un altro componente del Consiglio di amministrazione della società la Corte di Cassazione ha evidenziato che dalla lettura della sentenza impugnata è emerso che l'attribuzione all’imputato della qualifica di datore di lavoro di fatto ha trovato fondamento, più che nel dato indiziario della sua presenza in cantiere, nella constatazione che le attestazioni relative all'avvenuta formazione dei dipendenti erano state sottoscritte da lui ed era stato lui a provvedere alla consegna dei dispositivi di protezione individuale e soprattutto, nella costatazione che era stato proprio lui a sottoscrivere per ricevuta il PSC le cui prescrizioni non erano state rispettate e che, con la sottoscrizione, egli aveva dichiarato di "accettare il Piano di Sicurezza e Coordinamento e di attuarlo". I giudici di merito hanno ritenuto infatti che, avendo sottoscritto il PSC ed essendosi impegnato, con la sottoscrizione, ad attuarlo, l’imputato abbia esercitato una prerogativa propria del datore di lavoro e hanno ritenuto che questo dato, unito ad altri dati emersi nelle udienze lo rendesse destinatario degli obblighi di prevenzione ai sensi dell'art. 299 del D. Lgs. n. 81/2008.
Quest’ultima motivazione è stata ritenuta congrua e non illogica da parte della Corte di Cassazione né contrastante con i principi di diritto che regolano la materia. In tema di infortuni sul lavoro, infatti, "ai sensi dell'art. 299, del D. Lgs. n. 81 del 2008, la posizione di garanzia grava anche su colui che, non essendone formalmente investito, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro e ad altri garanti ivi indicati, sicché l'individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale" e ha fatto riferimento, come precedente, al contenuto di diverse sentenze della stessa Corte suprema fra cui la sentenza n. 10704 del 19/03/2012 della IV Sezione penale, pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo " L’esercizio di fatto dei poteri direttivi ex art. 299 del D. Lgs. 81/08".
Al rigetto dei ricorsi è conseguita la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Gerardo Porreca
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