La nozione di lavori in quota e la protezione dal rischio caduta dall’alto
Nell’introdurre il commento di questa sentenza della Corte di Cassazione viene da dire subito di non essere in linea, come pochissime volte accade, con le decisioni che in essa ha assunte la Corte suprema. Torna in particolare la Corte ad esprimersi sulla nozione di lavori in quota e sulla protezione dal rischio di caduta dall’alto richiesta dalle disposizioni di cui al D. Lgs. 9/4/2008 n. 81, contenente il Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, e torna altresì a dare una interpretazione non corretta, a parere dello scrivente, su quello che è il campo di applicazione dell’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008 e s.m.i. secondo il quale “nei lavori in quota devono essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose conformemente ai punti 2, 3.1, 3.2 e 3.3 dell’Allegato XVIII” intendendo per lavoro in quota, alla luce della definizione di cui all’articolo 107 dello stesso decreto legislativo, una “attività lavorativa che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza. superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile”. Lo aveva del resto già fatto la Corte di Cassazione in una precedente sentenza della stessa Sez. IV penale, la n. 43987 del 26/10/2013, esplicitamente richiamata in questa sentenza, nella quale aveva sostenuto analogamente che “l’altezza superiore a due metri dal suolo, tale da richiedere le particolari misure di prevenzione prescritte dall’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008, deve essere calcolata in riferimento all’altezza alla quale il lavoro viene eseguito rispetto al terreno sottostante e non al piano di calpestio del lavoratore”.
Il persistere dell’errata interpretazione da parte della Corte suprema sul campo di applicazione dell’art. 122 del D. Lgs n. 81/2008 e s.m.i. è spiegabile, a parere dello scrivente, con il fatto che la stessa Corte, in entrambe le sentenze, non ha tenuto conto della modifica apportata all’articolo 122 dal D. Lgs. correttivo 3/8/2009 n. 106, che va letto così come sopra indicato, per cui invece di fare riferimento ai lavori in quota, per la cui individuazione conta l’altezza dal suolo del piano di calpestio del lavoratore, ha fatto riferimento a quanto riportato nella versione originale dell’articolo 122 stesso secondo cui “nei lavori che sono eseguiti ad un’altezza superiore ai m 2 devono essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose conformemente al punto 2 dell’allegato XVIII” nella quale il legislatore, con il chiaro obiettivo di assicurare una continuità normativa, ebbe a riportare letteralmente quanto già contenuto nell’abrogato art. 16 del D.P.R. n. 164/1956, facendo così riferimento a lavori per la cui individuazione conta sostanzialmente l’altezza dal suolo del punto di lavoro che corrisponde praticamente all’altezza della posizione delle braccia.
L’evento infortunistico e l’iter giudiziario
L’amministratore unico e legale rappresentante di una società e la società stessa hanno proposto, per il tramite dei rispettivi difensori, ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello emessa a conferma della sentenza del Tribunale con la quale gli stessi erano stati ritenuti responsabili il primo, l’amministratore unico, in qualità di datore di lavoro, del reato di cui all'art. 590 comma 3 in relazione all’art. 583 comma 1 n. 1 c.p. perché, per imprudenza imperizia e negligenza nonché per colpa specifica consistita nella violazione dell’art. 112 del D. Lgs. n. 81/2008, omettendo di mettere a disposizione di un lavoratore dipendente opere provvisionali idonee ad evitare le cadute dall’alto per i lavori in quota e facendo utilizzare allo stesso per il montaggio di un soppalco in metallo, un ponteggio costituito da due cavalletti sormontati da tavole in legno non ancorate, ne determinava la caduta dall’alto mentre la società invece ritenuta responsabile della violazione amministrativa di cui all’art. 25 septies comma 3 del D. Lgs. n. 23l/2001, in relazione al reato di lesioni colpose gravi commesso, nel suo interesse o a suo vantaggio, dal suo legale rappresentante, in violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro di cui all’art. 112 comma 2 del D. Lgs. n. 81/2008, avendo omesso di adottare un modello di organizzazione idoneo al fine di prevenire la commissione, nel suo interesse o vantaggio, del reato di cui all’art. 590 c.p..
Come è risultato dalla ricostruzione dei fatti effettuata dai giudici di merito sulla base dell’istruttoria espletata, il lavoratore era caduto mentre si trovava su un ponteggio a causa dello scivolamento di una tavola in legno che era solo poggiata ma non comunque in alcun modo fissata sulla base ponteggio. Quest’ultimo, come accertato dall’ispettore del lavoro dopo l’infortunio, era costituto da due cavalletti, collegati tra di loro da “correnti” in ferro, sormontati da due tavole di legno e la sua altezza dal suolo era di due metri.
I giudici di merito avevano ritenuta integrata la colpa specifica per inosservanza dell’art 122 comma 2 del D. Lgs. n. 81/2008, il quale impone l’adozione di precauzioni per “i lavori in quota”, ricorrendo l’ipotesi di lavoro in “quota” che sussiste in presenza di attività lavorativa che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad un’altezza superiore a metri 2 rispetto al piano stabile. I giudici di merito avevano ritenuta altresì sussistente anche la colpa generica, ai sensi del’art. 2087 c.c., stante l’inadeguatezza dell’opera provvisionale messa a disposizione dell’operaio, costituita da un cavalletto sormontato da tavole di legno che non erano state ancorate in alcun modo alla base nonché l’assoluta inidoneità al tipo di attività, in quota, che richiedeva la massima stabilità anche per il tipo di lavoro da effettuare (imbullonamento delle travi del soppalco con la pistola automatica).
I difensori del datore di lavoro e della società hanno sostenuto nel loro ricorso che, come era stato riconosciuto dai giudici di merito, non era stato possibile accertare l’altezza del ponteggio per cui di conseguenza non era applicabile il disposto di cui all’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008, che prescrive l’adozione di ponteggi, impalcature, idonee opere provvisionali atte ad evitare il pericolo di caduta quando vengono eseguiti lavori in quota, intendendosi per lavori in quota, secondo la definizione data dall’art. 107 del citato decreto legislativo, lavori “che espongono il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a due metri rispetto ad un piano stabile”. Di conseguenza, ha sostenuto la difesa del datore di lavoro, non sussistendo alcun profilo di colpa specifica a carico dello stesso, ma solo profili di colpa generica, il reato era procedibile a querela di parte e non di ufficio e quindi, non essendo stata proposta querela, l’azione penale era improcedibile per cui la sentenza impugnata doveva essere annullata senza rinvio perché l’azione penale non avrebbe potuto essere promossa per mancanza della querela.
La difesa della società da parte sua ha evidenziata l’applicabilità al caso in esame del disposto dell’art. 37 del D. Lgs. n. 231/2001, secondo cui “non si procede all’accertamento dell’illecito amministrativo dell’ente quando l’azione penale non può essere iniziata o proseguita nei confronti dell’autore del reato per mancanza di una condizione di procedibilità”.
La difesa della società ha, inoltre, messo in evidenza che il primo giudice aveva fondata la responsabilità della società sulla mancata adozione di un efficace modello di gestione, senza motivare sulla esistenza del requisito dell’interesse o vantaggio per l’ente, prescritto ai fini della configurabilità dell’illecito amministrativo. Secondo la stessa difesa nessun risparmio di spesa vi era stato in quanto, alla data dell’incidente, la società disponeva di opere provvisionali sia per i lavori in quota sia per quelli ad altezza inferiore ai due metri né vi era stato un risparmio di costi di manodopera essendo emerso che il montaggio dei castelli, in sicurezza, veniva effettuato dagli stessi dipendenti che dovevano usarli per i lavori in quota. Neppure vi era stato un risparmio di tempi essendo evidente che il corretto montaggio di un ponteggio “a norma” richiede pochi minuti trattandosi di assemblare e collegare tubi innocenti, di sormontare il castello con assi di legno ed assicurare la stabilità del piano così creato con sistemi di fissaggio quali piedini o perni.
La responsabilità amministrativa dell’ente, ha ancora ribadito la difesa della società, sussiste solo se il fatto-reato sia dipeso da una condotta finalizzata al conseguimento di risultati economici in termini di risparmio dei costi o di altri vantaggi economici mentre deve essere esclusa quando esso sia dipeso da mera imperizia, imprudenza, negligenza o da colpa specifica del soggetto che rappresenta la società, così come è avvenuto nel caso in esame.
Le decisioni della Corte di Cassazione
I ricorsi sono stati ritenuti dalla Corte di Cassazione infondati. La stessa ha ribadito, infatti, che, così come già più volte affermato in precedenza, “l’altezza superiore a due metri dal suolo, tale da richiedere le particolari misure di prevenzione prescritte dall’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008, deve essere calcolata in riferimento all’altezza alla quale il lavoro viene eseguito rispetto al terreno sottostante e non al piano di calpestio del lavoratore (Cass. Sez. IV, n. 43987/2013 RV 257693)”. Prendere come punto di riferimento la posizione del lavoratore, infatti, ha così giustificato il proprio parere la Corte suprema, significa escludere la stessa configurabilità dell’ipotesi del lavoro in quota superiore ai due metri, essendo comunque necessario che l’oggetto sia a portata degli arti superiori del lavoratore.
Nel caso in esame, come evidenziato nella sentenza impugnata, era stato dimostrato che doveva essere costruito un soppalco ad un’altezza di 3 metri dal suolo e la lavorazione affidata al lavoratore infortunato consisteva nell’avvitamento della relativa trave ad un altezza derivante dalla sommatoria dell’altezza del trabattello, dell’altezza del lavoratore pari ad 1,75 metri e dello spazio soprastante alla sua testa necessario a consentirgli di effettuare l’attività di avvitamento con l’apposita pistola pneumatica, un’altezza dunque sicuramente superiore ai due metri tale da integrare il requisito di cui all’art. 122 D. Lgs. n. 81/2008. Di conseguenza, secondo la Sez. IV, doveva ritenersi corretta la conclusione alla quale era pervenuta la Corte di Appello che aveva ravvisato in capo al datore di lavoro un profilo di colpa specifica, oltre che di colpa generica, per la mancata adozione di misure idonee a scongiurare il pericolo di cadute sussistendo il requisito dei “ lavori in quota” secondo il criterio e la definizione data dall’art. 107 del D. Lgs. n. 81/ 2008.
Quanto alla configurabilità della responsabilità della società per reati colposi di evento, i criteri di imputazione di cui all’art. 5 del D. Lgs. n. 231/2001, interesse o vantaggio per l’ente, devono essere riferiti, secondo la suprema Corte, alla condotta e non all’evento. Tali criteri sono inoltre alternativi-concorrenti nel senso che il criterio dell’interesse è apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione dell’illecito e secondo un metro di giudizio soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione oggettiva apprezzabile ex post sulla base degli effetti derivati dall’illecito.
Ebbene nel caso in esame, ha così concluso la Sez. IV, la Corte di Appello, con motivazione esente da vizi, ha correttamente ritenuto sussistenti entrambi i criteri precisando che sicuramente la condotta colposa in questione è stata realizzata nell’interesse della società al fine di realizzare, a qualunque costo ed in tempi ridotti, il lavoro di soppalcatura ad essa affidato utilizzando allo scopo un ponteggio non a norma e mettendo a rischio l’incolumità del lavoratore. E’ stato individuato anche il requisito del vantaggio dell’ente ravvisabile, secondo una valutazione ex post degli effetti della condotta illecita, in un risparmio di tempi e costi di manodopera.
Contrariamente a quanto affermato dalla difesa, infatti, ha così concluso la Corte di Cassazione, è indubbio che il montaggio di un ponteggio a norma richieda tempi ben più lunghi rispetto a quelli necessari per appoggiare delle tavole di legno su due cavalletti senza neppure fissarle (come è stato fatto nel caso in esame). Tempi più lunghi che avrebbero comportato un aggravio dei costi di manodopera ciò a prescindere dalla circostanza, invocata dalla difesa, che normalmente il montaggio dei castelli, in sicurezza, veniva effettuato dagli stessi dipendenti che dovevano usarli per i lavori in quota. Tale circostanza è del tutto irrilevante sotto il profilo del vantaggio in quanto comunque, secondo la Corte stessa, il montaggio di ponteggi a norma determina un protrarsi dei tempi di esecuzione dell’opera e, quindi, un aumento della retribuzione dovuta al lavoratore. al pagamento delle spese processuali.
Per questi motivi in definitiva la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannati i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Gerardo Porreca
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Rispondi Autore: Norsaq Bruno Pullin - likes: 0 | 20/02/2017 (08:47:29) |
Bisogna che ricordi all'amico Enrico, alto 2,07 m, che quando si pettina deve montare un parapetto. |
Rispondi Autore: Harleysta - likes: 0 | 20/02/2017 (12:09:38) |
...eh, può aver ragione l'enrico, tuttavia gli infortuni peggiori sono proprio quelli di caduta dal trabattello, in quanto l'operatore che si sbilancia, non ha tempo di girarsi o prepararsi alla caduta. in altre parole, cade quasi sempre all'indietro battendo la nuca a peso morto... |
Rispondi Autore: Ettore Togni - likes: 0 | 20/02/2017 (21:49:03) |
Perchè tanta gentilezza per dire che la Corte ha fatto un altro danno enorme ? |
Rispondi Autore: Riccardo Coletti - likes: 0 | 21/02/2017 (09:27:31) |
c'è da dire che se monto un ponte su cavalletti a 1 m d'altezza, e cado perchè l'ho montato male oppure perchè ho utilizzato componenti danneggiati, potrebbe configurarsi una colpa per diversi motivi, ad esempio: - aver messo a disposizione dei lavoratori attrezzature non idonee - non aver effettuato un'idonea manutenzione delle attrezzature - non aver formato adeguatamente i lavoratori sull'utilizzo delle stesse attrezzature Tutto ciò, anche se l'altezza del piano di calpestio è inferiore a 2 m. Ma in ogni caso, concordo nel dire che la Cassazione ha emesso una sentenza con motivazioni errate, quindi mi chiedo: quel datore di lavoro che ora si ritrova condannato, cosa può fare? Farsene una ragione? Appellarsi a qualche tribunale internazionale? Incatenarsi in piazza per protesta??.... |
Rispondi Autore: matteo - likes: 0 | 21/02/2017 (15:02:50) |
siamo alla follia... ogni lavorazione svolta piedi a terra ma col le braccia sopra la testa è diventata per la Cassazione lavoro in quota.... qui dobbiamo iniziare a chiederci chi e come diventi giudice di Cassazione |
Rispondi Autore: M.F - likes: 0 | 21/02/2017 (16:31:04) |
Stiamo rasentando il ridicolo!! Spero vivamente che la notizia sia una Bufala. Se fosse vera mi faccio licenziare. (sono ASPP) |
Rispondi Autore: Andrea Ariani - likes: 0 | 21/02/2017 (18:31:52) |
Forse ho capito male.. ma per lavoro in altezza conta l'altezza dal terreno??? quindi se io sono impiegato nell'ufficio al 5° piano di uno stabile, mi devo imbracare?? sto lavorando ben al di sopra dei 2 metri di altezza dal terreno..... |
Rispondi Autore: M.F - likes: 0 | 22/02/2017 (08:38:37) |
Attenzione... 2 metri da un piano stabile, non da terra. |
Rispondi Autore: giuseppe martino - likes: 0 | 25/02/2017 (09:28:39) |
Scusate, ma mi permetto di far osservare che si sta parlando "semplicemente" di una sentenza di Cassazione, e qualsiasi avvocato o giudice potrà spiegare che una sentenza di merito, sia pure autorevole, non rappresenta un dogma, un dettato legislativo. In pratica: ciò che conta è sempre e comunque la legge (in questo caso il T.U. n. 81/08) e certamente non una sentenza "sparata" a vanvera.Pertanto se ad esempio un D.L. omette di porre in atto quanto previsto dall’art. 122 del D. Lgs. n. 81/08 (adozione di ponteggi, impalcature, ecc.)in caso di un lavoratore alto un metro e novanta che, stando in piedi sul normale piano stabile di lavoro,opera con braccia elevate per sistemare un quadro elettrico (cosicchè il punto di lavoro risulta ben sopra i 2 metri...), non viola assolutamente la legge; anzi, qualora pretendesse di fare come dice questa illuminata sentenza quel lavoratore avrebbe perfettamente il diritto di mandarlo a quel paese. |
Rispondi Autore: carmelo catanoso - likes: 0 | 26/02/2017 (11:56:11) |
La Cassazione Penale non condanna o assolve nessuno ma si "limita" a verificare se i giudici di prime e seconde cure hanno applicato la legge. Quindi, ad esempio, può accettare o rigettare i ricorsi e procedere a confermare o ad annullare la condanna con o senza rimando ai giudici di seconde cure (appello). Detto questo, si dovrebbe andare a vedere quando è accaduto l'evento e quale era la legislazione vigente al tempo. Se al tempo era vigente l'art. 122 prima della successiva modifica apportata dal D. Lgs. n° 106/2009, per quanto assurdo possa sembrare, la Cassazione non ha potuto dire nulla sulla corretta applicazione della legge da parte dei giudici di prime e seconde cure. In caso contrario, con un evento avvenuto dopo l'entrata in vigore del correttivo (D. Lgs. n° 106/2009), la Cassazione Penale ha preso un abbaglio. Infine, va ricordato che una pronuncia della Cassazione Penale vale per le specificità del caso e non può essere estesa, come se nulla fosse, a casi più o meno similari. Quindi, non fasciamoci la testa e non facciamo allarmismi inutili pensando di dover rivedere tutto quello che abbiamo fatto in materia di sicurezza dei lavori in quota. |
Rispondi Autore: Davide Crescenzio - likes: 0 | 27/02/2017 (13:28:46) |
Io comprendo, dall'articolo, che il lavoro in quota diventa tale quando il lavoro è oltre due metri rispetto al suolo e il lavoratore utilizza un'attrezzatura per raggiungere tale posto di lavoro, che abbia o meno i piedi a due metri rispetto ad un piano stabile (il suolo in questo caso). Io aggiungerei che l'art 111 del Dlgs 81/2008 recita, al punto 5: "Il D.L., in relazione al tipo di attrezzatura di lavoro adottate in base ai commi precedenti, individua le misure atte a minimizzare i rischi per i lavoratori, insiti nelle attrezzature in questione , prevedendo, ove necessario, l'installazione di dispositivi di protezione contro le cadute. I predetti dispositivi devono presentare una configurazione ed una resistenza tali da evitare o da arrestare le cadute da luoghi di lavoro in quota e da prevenire, per quanto possibile, eventuali lesioni dei lavoratori..." Vogliamo asserire che due tavole messe lì su due cavalletti con il rischio di scivolare con sopra un lavoratore con in mano una pistola pneumatica sono sufficienti a evitare ragionevolmente la caduta? Direi che è sufficiente avere esperienza di una banale caduta da un gradino (ovviamente in modo inconsapevole) per capire che non possiamo pensare che con i piedi a 1,50 m da terra non ci facciamo del gran male. La chiave sta sempre nella valutazione dei rischi fatta come si deve. |
Rispondi Autore: matteo - likes: 0 | 03/03/2017 (09:28:06) |
il fatto che una singola sentenza non possa essere (per fortuna) estesa in via generale e il fatto che una caduta possa essere dannosa anche da un piano ad altezza < 2m (lapalissiano) NON comportano necessariamente il difendere una sentenza che è oggettivamente assurda; lo è anche nel caso che sia riferita all'articolo "pre-106", anzi il voler a tutti i costi richiamare le sentenze precedenti senza riferirsi alle leggi attuali è aberrante |